Guglielmo Maria

Guglielmo Maria
Le Sette Sorelle

sabato 3 aprile 2010

Mentre scendevano le seconde ombre di una tiepida serata primaverile, insieme a Jonny Whitening, quello del dentifricio, sono partito da Gran Burrone per la zona universitaria di Fast City, la metropoli tentacolare, l'ombelico del mondo, il centro della terra, la vecchia signora dai fianchi un pò molli che ha, per dirla come Francesco Guccini, il seno sul piano padano ed il culo sui colli e, aggiungerei io, un odore di kebab sotto le ascelle, essendosi persi la mortadella ed il salame per strada.

Io non stavo più nella pelle, eravamo diretti al concerto di Sergio Caputo, lui, proprio lui, l'eroe della mia post-adolescenza, l'uomo le cui cassette ascoltavo in macchina salendo e scendendo per l'appennino, l'uomo le cui canzoni avevo imparato a memoria e mai dimenticate, l'uomo che mi aveva regalato notti di libidine fra night e sabati italiani, fra astronavi che arrivavano, Garibaldi innamorati ed Hemingway caffé latini. Erano ventisette anni, giorno più, giorno meno, che il mio cuore musicale innamorato aspettava solo l'occasione di conoscere l'uomo della sua vita, alla faccia di Jonny Smiths.

La serata prometteva bene, anche la notte era bella, con una gran luna. Eh, già, l'hai vista tu la luna a Marechiaro? L'ho vista anch'io, ma sopra Gran Burrone, era una luna sciantosa, tutta pronta, che sembrava un angelo svolazzante fra i tavoli di un caffé concerto e abbiamo pure chiaccherato, come nel pezzo dell'astronave. Io e la luna, intanto che andavo a prender Jonny Whitening, abbiamo anche cantato e diviso un bicchiere di tequila, anche se Sergio non la beve più, facendo un coretto con sette gatti neri.

Arrivando a Fast City, come al solito il primo problema é il parcheggio. Infatti dalle otto di sera Sirio si ammoscia, perché si accende la stella, allora tutti, noi compresi, si entra nella zona a traffico limitato in cerca di un posto dove mollare auto e bagagli. Il traffico è limitato nel vero senso della parola, perché ci sono poche macchine in giro. In effetti sono tutte parcheggiate, anche una sopra l'altra, una sotto l'altra, una a fianco all'altra, come in un'orgia motoristica dove, se non stai attento, un pistone ti si infila nello scappamento perché ha trovato un buco libero. Per evitare il tutto allora si va nel multipiano sotterraneo, quello sotto alla piazzola, circondato da tossici e ubriaconi, che pisciano dentro i tombini o almeno ci provano. Ah, Fast City! Regno del romanticismo bohemienne!

Arrivati a Fast City, dopo aver parcheggiato aprendo un mutuo a favore del padrone del multipiano, come al solito inizi a camminare sotto i portici. I portici sono una applicazione multimediale, infatti hanno molti usi, tipo zona ciclabile sregolata, rimessa di motorini e pista da sci per lo slalom fra gli stronzi. I portici sono una peculiarità di Fast City, che non ne potrebbe fare a meno, visto che ci si fa tutto. Nell'ordine potrebbe capitare di trovarci gente che dorme, gente che fuma, zombie, qualcuno che caga, due che si incazzano, tre ragazze con la cresta stile punk-rock con un lucchetto nel naso, qualcun'altro che gira con l'oca di fuori, un barbone che si mette a posto i cartoni, un finto prete ed una finta suora in libera uscita che vanno ad una serata sadomaso, una fila di negozi pakistani e una trama continua di graffiti colorati sui muri, sulle serrande, per terra che aumentano sempre di più man mano che ti avvicini alla zona universitaria.

La zona universitaria, per uno della mia età, é un colpo al cuore, ma dato bene. E' piena di figa e questo già basterebbe. E' piena di volantini sui muri, piena di scritte, piena di librerie, piena di negozietti, piena di caffè coi tavolini. E' piena dei pensieri di mille anni fa, dei sorrisi di mille anni fa, degli amori di mille anni fa, come una scatola di latta nella quale tieni le vecchie foto che ingialliscono e col tempo diventano più belle e con loro sembrano più belli quelli fotografati sopra. La zona universitaria é un concentrato di pomodoro, una specie di ortolina dei ricordi. Tutte le volte che ci ritorni inizia la litania di "ti ricordi quello, ti ricordi questo, ti ricordi lì che c'era il cinema porno e adesso ci sono dei mini appartamenti" e ti si molla la lacrimuccia, salata come la vita. Meno male che poi, come Dio vuole, arrivi al caffé dove suona Sergio e allora dimentichi tutto e ti tuffi nell'atmosfera modaiola e metropolitana.

Il locale sembra un grande utero, con le sue tube di Falloppio al posto giusto e le ovaie al posto dei cessi. Alla porta c'é un buttafuori abbronzato, molto glamour, che fa tanto grande Mela, e questo già basterebbe. Se lo guardi da fuori il personaggio sembra immobile come una sfinge tanto che pensi faccia parte dell'arredamento del locale ma, come apri la porta, cortesemente ma fermamente ti chiede dove cazzo vai in maniera educata. La parola magica é "abbiamo prenotato" e allora puoi entrare in questa sorta di vagina rossa, molto chic, poco choc e abbastanza figaiola, dove il primo appuntamento ce l'hai con un altro tipo dietro ad un leggio che controlla sul libro dei salmi se il tuo nome compare fra gli eletti, fra quelli che, fra poco, vedranno concepire e nascere la musica dal centro del mondo.

Qualche bigliettone dopo io e Jonny eravamo appollaiati su due sgabelli, al banco del bar, ma con vista palco. La situazione faceva tanto "io e rino" e la notte era ancora giovane, cosa desiderare di più, in quel momento quasi storico? Il primo giro, servito da un barman abbronzato e pure lui molto glamour é stata una Becks ed un rosso di Montepulciano, con annesse patatine, olive, cazzeggio vario e sguardi incuriositi nel locale per vedere se, fra tanta gente, ci fosse qualcuno di conosciuto. La prima oretta passò via così, a piccoli sorsi, a piccoli sguardi, a piccole parole perdute fra la gente che mangiava, beveva e si godeva la serata, in attesa dell'arrivo del nostro eroe, lo chansonnier. Qualche commento sulla passera e la birretta andava giù e si mescolava coi ricordi, tra muri dipinti e bottiglie di vino, aperitivi e cocktail, scaloppine e insalate e gnocche che se la tiravano solo perché avevano la schiena nuda ai primi di aprile.

Alla sua ora, finalmente sentiamo aprirsi la porta e vediamo il buttafuori scappellarsi e fare entrare un gruppetto eterogeneo che fende la folla fiondandosi in direzione del privé. Il più grande, anche se era il più basso, era lui, il mio sogno, vestito come il grande puffo ma senza barba, irradiava un senso di potenza a stento trattenuta. Forse gli scappava perché é sparito di corsa verso il cesso, seguito dal suo entourage. Forse scappava anche a loro. Era tutto molto glamour, verso la profondità della terra, verso le segrete stanze che dovevano raccogliere la concentrazione e riunire le forze nell'atmosfera elettrica che prelude ai grandi eventi, come quello che stavo vivendo. Il passaggio veloce della band era stata una botta di vita, mi sentivo una pianta sferzata dal vento e dalla Becks.

Pian piano i nostri eroi salirono uno a uno e, come Mosé nel mar Rosso, aprirono le acque e salirono sul palco, laggiù, oltre la cervice uterina. Uno al basso, uno alla batteria, uno al clarinetto/sax/flauto traverso e uno alle tastiere. Mancava lui, ma per il momento andava bene lo stesso, l'avvenimento si stava costruendo sotto i miei occhi, davanti al mio naso, poco più in là. Ero felice, moderatamente alcolico e in attesa del lieto evento, persino due babbione si erano sedute accanto a me ma non ci facevo caso, tanto ero preso dalla situazione così metropolitana, equilibrista in bilico sul fine settimana, é quasi l'ora delle streghe e le stelle sono accese.

Poi sentiamo passare una Fender. Una Fender col berretto. Una Fender più grande di lui, che è il più grande di tutti. Una Fender che sale sul palco, lì, che puoi allungare una mano e toccarla. E questo già basterebbe.

E poi parte la musica, partono le parole, parte il ritmo e il blues, parte il treno, parte il tempo, partono i colori, partono i bicchieri, partono gli amori, parte il basso e duetta con la tastiera, sembra una composta di frutta, pezzi di frutta grandi come me, come te, da abbracciare e baciare, da assaggiare lentamente, da gustare, da assaporare, come la vita, come la prugna, come il mondo che gira gira e balla e qualche volta torna da dove era partito ma qualche altra volta arriva dove non sai, ma va sempre bene, in una serata così.

Chiudi gli occhi, apri il tuo cuore.

Vedi la musica, senti i respiri, ti batte il cuore in sincrono. Ne approfitti per fare un pò di musica in quest'attimo infinito, bloccato, da tasto pausa. Tutto é fermo, solo la musica vive. Tutti sembrano statue di sale, tutti immobili, congelati, solo la musica si muove. Ed io con lei.

Scendo dallo sgabello e lascio Jonny Whitening al suo rosso. Tutto é fermo, tranne la musica. La musica é una serie di fili colorati, di bricioline di pane, di indizi da seguire. C'é il filo blu delle tastiere, blu elettrico. C'é il filo del basso, marrone come la terra. C'é quello della batteria, giallo oro, come il sole. C'é quello rosa del sax, tutto attorcigliato. Poi c'é l'arcobaleno della Fender e all'inizio dell'arcobaleno c'é una pentola d'oro e uno gnomo, chiamato Sergio Caputo, col suo berretto color notte e spicchio di luna. Tutti fermi, come una fotografia, con questa magia della musica che ti gira intorno, che ti prende, che ti abbraccia, che ti fa ballare e ti fa dire "la vita é bella, ciao, mercy bocù".

Io salto sui tavoli, calpesto i camerieri dai capelli rasta, mi faccio largo fra la gente, seguo il filo della musica e volo verso il palco, verso l'inizio dell'arcobaleno, verso l'astronave che é arrivata, verso il Garibaldi innamorato dell'Anita, verso l'Hemingway caffé latino se ghigna Belzebù, verso un sabato italiano, verso un italiani mambo, fino alla fine del tempo, quel tempo che si é fermato e ha congelato tutto in baygon street numero uno. Prendo i fili con le mani e volando arrivo sul palco. Sono lì, a fianco di Sergio Caputo, io, proprio io. Proprio io con i miei capelli che non ci sono più, con la mia vita fatta a scale, con i miei vent'anni di una volta, con il trio vocale militare, proprio io.

Stampo un bacio in fronte a Sergio che manco se ne accorge e prendo tutti i fili della musica e ne faccio un gomitolo col quale mi farò un maglione, per le sere dell'autunno della mia vita. E poi mi lascio andare, riapro gli occhi e torno istantaneamente sul mio sgabello, vicino a Jonny Whitening, mi infilo le mani in tasca e sento il mio gomitolo di musica, il mio gomitolo colorato, il mio pezzo di arcobaleno. Mi giro verso il palco, dove Sergio saltella abbracciato alla Fender e lo saluto. Lui risponde al saluto e mi firma due autografi, uno per Guglielmo e uno per Maria. Allora respiro, mi finisco la birretta e allungo le mani sui tasti del pc.

E scrivo. E volo. Via sopra Fast City, seguendo il filo della musica.

Grazie a Sergio Caputo e alle sue canzoni, citate in maniera sparsa in questo arcobaleno di emozioni. GM

2 commenti:

Fabio Bogliotti ha detto...

"e prendo tutti i fili della musica e ne faccio un gomitolo col quale mi farò un maglione, per le sere dell'autunno della mia vita"

ti cito perché mi è piaciuta assaje!!!
bravo, bene, bis!!!
è questo il successo di una persona che scrive: essere citata!

strillo

Guglielmo Maria ha detto...

thank you... very much! GM