Guglielmo Maria

Guglielmo Maria
Le Sette Sorelle

lunedì 29 marzo 2010

Carissima, tu lo sai che stamattina ho pianto per te mentre me ne stavo nella mia gabbia, tu lo sai che ho sentito il tuo dolore e l'ho accettato e l'ho preso come fosse mio, anche se mi ha fatto male, molto male. Ma, si sa, se la vita non é vissuta veramente cosa la viviamo a fare? Meglio un giorno da leone che cent'anni da pecora, dicono i proverbi, che spesso hanno ragione.

Oggi ho risentito quella forza bruta che mi prende da dentro e mi spacca a metà, quella forza strana che sento tutte le volte che penso a te, quella forza viva che nasce in virtù di... una profonda amicizia e di una forte empatia? Anche se non ci conosciamo, anche se siamo così diversi, così provenienti da altri pianeti e viviamo anche in mondi così lontani.

"Io", il regolare, l'impiegato, nella media della media, io, un essere da libro delle statistiche, quello del mezzo pollo, io marito, io papà, io con la station wagon, la ventiquattrore, il giornale alla mattina, il caffé al bar, le ore al lavoro, senza gioia, senza infamia e senza lode. Io, la cui unica trasgressione é quella di buttare lo scontrino del bar dentro al cestino del bancomat facendo il dito medio alla telecamera lì sul muro, tanto per dare un tono alla mattina. Io, che mi ritrovo alla mezza età e facendo il bilancio di una vita di positivo ci scopro solo che almeno non mi metto sempre e solo le dita nel naso; io il qualunque.

"Tu", l'angelo perduto, quella che ha immolato la propria gioventù sull'altare di non si sa cosa, che si ritrova alla mezza età e si scopre alla metà del guado della vita improvvisamente e forse improvvisamente si chiede il perché. Tu che sei libera di essere, non hai legami, puoi vivere oggi qui e domani là, senza rispondere a nessuno che a te stessa, che passi i minuti, le ore, le giornate ed i mesi come vuoi, salvo pentirtene e ricominciar daccapo, perché non sai fare altrimenti, Tu che ti fai uccidere a poco a poco, volta per volta ed é sempre più doloroso e quando si alza più forte il richiamo del tuo assassino sempre rispondi.

"Io" che ho fatto una vita inutile, piena di cose che mi chiedo se ho mai voluto far davvero, io che mi sento qui, anch'io a metà del guado e non so se andare avanti, tornare indietro oppure rimanere fermo, in mezzo alla corrente e farmi portar via come se fossi uno stronzo. Io che ho chiesto per quando morirò di essere cremato e ridotto in cenere e disperso in qualche parco, su qualche montagna o in mezzo al mare, io che non penso più al suicidio ma che non voglio essere ricordato nemmeno con una targhetta, meglio l'oblio, sicuramente. Io che ho vissuto i miei cent'anni da pecora, sempre spaventato dai leoni.

"Tu" che hai lasciato la tua valle, la tua casa e te ne sei partita per fare ciò che non so e che non voglio immaginare, tu che hai il cuore dilaniato per quante volte ti sono saltati addosso e te lo hanno mangiato, tu che te lo sei fatto mangiare. Tu che ti nascondi dietro ad un'armatura, tu che cerchi di non brillare come una stella, tu che sei il magnetismo che attrae intorno alla tua orbita, sperduta nel cielo come una stella cometa che va, torna, va e torna. Tu, che hai il corpo di fenice, che ogni giorno muori e bruci ed il mattino dopo rinasci dalle tue ceneri perché sei immortale.

"Io" che mi nascondo dietro a questa vita squallida e monotona, che cerco nel mio Dio rassicurante fatto di pastiglie la tranquillità e la vittoria contro l'ansia, contro l'angoscia, contro quello che mi prende e che mi porta via, chiuso in me stesso, nel buio di una stanza, dove mi vergogno per quello che sono e per quello che non sono, soprattutto. Io che ho una figlia che mi adora ma che non ha ancora  aperto gli occhi su ciò che veramente suo padre é. Io che ho una moglie che mi sopporta e che si é anche stancata delle mie pugnette anche se magari non me lo vuol far capire, ma si legge dai segni.

"Tu" che pensi che gli altri non possano innamorarsi di te ed invece hai tanti che ti amano. Tu che non ti ami, se no avresti smesso di farti del male, tu che sei aggrappata alla vita come un naufrago ad un tronco d'albero, con tutte le sue forze, ma in balia della corrente che lo porta via. Tu che sei un angelo caduto, dalle ali spennacchiate eppure anche così sei di una bellezza spaventosa, che si fa fatica a guardarti, perché si rimane abbagliati e senza parole. Tu che dici di non credere in Dio ma poi diventa lui il bersaglio dei tuoi strali. Tu che dopo una vita impossibile hai avuto lo stesso la bontà e la forza di allungare una mano e far rialzare in piedi e vivere chi era già rassegnato ad una lenta morte, come una candela che si spegne, come me, il coglione.

Tu, quel giorno, hai regalato a me il piacere dell'oggi.

Voglio dirti... vivilo anche tu questo "oggi", vivilo vividamente, a colori, in alta definizione, respirando, volendoti bene, amandoti, anche se non sai quanti giorni ti rimangono, come non lo so io quanti giorni mi rimangono. Dopo cent'anni da pecora ho conosciuto finalmente un leone, anzi una leonessa, che però non sa di esserlo e se lo sa, fa conto di non saperlo. Però questa leonessa mi ha insegnato come si fa e me l'ha insegnato solo con l'esempio.

Smetti di nasconderti, leonessa. Ruggisci, scagliati contro chi ti fa del male, anche contro te stessa se ti serve, ma fallo. Sei bellissima, leonessa, ricordati che non devi vergognarti di niente.

Ti amo, magari a modo mio, ma ti amo. GM

sabato 27 marzo 2010

In questa notte di primavera, la prima notte di primavera, il mio istinto cacciatore mi ha svegliato alle tre e un quarto, forse prima, quando il mondo, visto dal mio letto, era una scatola scura con molte ombre e poche luci, ma buone. C'era la luce di un lampione che timidamente si faceva strada fra le tende della finestra, entrando a trovarmi con la leggerezza della mano della mamma che sfiora il proprio bambino, raggomitolato fra le lenzuola, abbracciato al cuscino, ma col nasino tutto rincagnato.

C'era la luce delle stelle, disperse in un cielo nero e meno visibili del solito perché la luna sta diventando piena e vuole sempre più spazio nel cielo. Quella luna che vuole attirare l'attenzione di tutte noi, piccole falene, che proviamo a raggiungerla imbarcandoci in un viaggio probabilmente senza fine perché, forse, non ci arriveremo mai. La luce della luna, là in alto nel cielo, oscurava da sola un bel pezzo della volta stellata e le stelline attorno a lei scomparivano nel fulgore di quell'abbaglio tremendo, persino ai nostri occhi. Stanotte, guardando la luna, ti potevi ferire gli occhi con la sua carezza, tanto era forte.

C'era la luce dei miei sogni interrotti, che svanivano poco a poco dalla memoria, fino a finire del tutto in una manciata di pensieri piccolini, da tenere sulla punta delle dita, trattenendo il respiro. I miei sogni interrotti erano ormai delle palline colorate che rotolavano via lungo la discesa della notte, appena appena brillanti quando si scontravano con i raggi della luna, unica, bella, viva, lassù nel cielo fino a perdersi chissà dove, in qualche anfratto, in qualche scatolina di metallo, in qualche angolino nel cervello. Come perline a terra che scappano via così i miei sogni svanivano nella nebbia della veglia, fra la terra del mio istinto cacciatore che tutto vuole e niente respinge.

C'erano le fronde degli alberi che ballavano al ritmo sexy della notte, di una notte ventosa, di una notte dai capelli lunghi che, scuotendosi di dosso la polvere del giorno, si muovono e danzano anche loro godendo del vento, del soffio della terra, dell'alito di un Dio bellissimo che ci vuole bene e ci permette di rimanere soli nel letto nel cuore della notte, avvolti dai pensieri e dalle coperte, avvolti dai residui dei sogni ormai evaporati e perduti, dentro ad una carezza. C'erano i tetti delle case, lì ad un passo, che ti pare di toccarli allungando un braccio e sembrano la superficie di una piramide immensa di blocchi di granito, chiari come gli occhi marroni della mia bambina quando mi sorride.

E poi c'ero anch'io con il mio istinto cacciatore, tutti e due svegli alle tre e un quarto, a guardare in alto provando ad attraversare i muri, migrando verso il cielo, il cielo nero come la terra fertile quando il Nilo si ritira e torna nel suo letto. Quel mio istinto cacciatore che mi chiama, mi scuote, mi toglie dal sonno, mi sveste e mi riveste, mi sveste e mi riveste e nella ripetizione mi riempie i polmoni dell'aria della notte e le orecchie della musica delle foglie di quegli alberi che, lentamente, ballano al ritmo sensuale della notte e della luna, riflessa dai tetti, fra le ombre del lampione, al di là della scatola di metallo nella quale si conservano i pezzetti dei sogni, pallidi e frammentati, una volta ancora, una volta di più.

Il mio istinto cacciatore si chiama Wile E. Coyote ed il mio destino si chiama Beep Beep. Il mio istinto cacciatore mi fa alzare dal letto alle tre e un quarto di una notte con la luna e mi porta lungo le strade della vita a cercare il mio destino, che non si fa acchiappare. Il mio istinto cacciatore mi porta lì, nascosto dietro un angolo, elaborando complessi disegni per acciuffare il destino, che passa come un treno illuminato alla velocità del suono, si gira e mi fa uno sberleffo e mi dice che non ce la farò mai, che non lo prenderò mai, ma io so che invece non lo perderò mai, basta aver fiducia. Aver fiducia nei tuoi complessi progetti, dei quali non trovi più il capo e la coda, tanto sono mescolati, ma basta stare un passo indietro e guardarli da lontano allora forse puoi capire tante cose.

Il mio istinto cacciatore ha una colonna sonora bellissima, più bella del vento di questa notte, il vento che ha spazzato le nuvole e ci ha regalato un cielo limpido come l'acqua di un laghetto nel quale si specchiano tutte le montagne del mondo, dalla cima sempre ricoperta di neve. Il mio istinto cacciatore, quando vede le montagne, si mette a scalarle per arrivare in cima e quando é lassù, gli basta respirare per sentirsi vivo. Al mio istinto cacciatore piace tirare fuori il binocolo, quando è in cima ad una montagna ed inizia ad osservare pian piano tutto ciò che lo circonda, alla luce della luna. A me invece piacerebbe sdraiarmi, in cima alla montagna, per guardare il cielo che é così vicino, guardare le stelle, iniziare a contarle anche se é impossibile contarle tutte ed allungare una mano per toccarle, anche se é impossibile toccarle tutte e riempirmi le tasche di neve.

Ma il mio istinto cacciatore ha visto il destino, che corre laggiù sulla pianura e allora, con la forza pazzesca della follia, si butta dalla montagna ruzzolando, correndo, sbatacchiato qua e là, scansando rocce, saltando alberi, spruzzandosi nei torrenti, aggrappandosi alle stelle e sbattendo contro un masso, rimbalzando via ed io con lui, portato via, per sempre, fino alla fine della corsa che però non so quando sarà, ma vale la pena correrla, fino a che non arriva il giorno e ti dici che dopo tutto é stata una bellissima notte, stanotte, e ti é sembrato tutto un sogno...

... che mi ha lasciato le tasche tutte bagnate di neve.

Wile E. Coyote e Road Runner (Beep Beep) sono personaggi dei cartoni animati creati da Chuck Jones nel 1948 per la Warner Bros. GM

giovedì 25 marzo 2010

Letterina a Gesù Bambino...

Caro Gesù Bambino, é arrivata la primavera, si sente nell'aria, si vede nei colori del cielo, nelle gemme sugli alberi, nei sorrisi, nei bambini, negli innamorati, nelle ombre della notte che iniziano lentamente a rallentare, negli occhi dei gatti che se ne stanno accovacciati sullo zerbino, nei panni stesi al sole che asciugano un poco più in fretta, nei pensieri che accompagnano le nostre giornate, nell'odore del caffé al mattino, nei discorsi fatti in piazza dai vecchietti, nelle serrande dei negozi che si alzano un pò prima, nei riflessi dell'acqua e nel cinguettare degli uccellini.

La primavera é l'inizio di un nuovo anno, spuntano le foglie, arrivano i fiori, aumentano gli ormoni e le passioni, si accorciano le gonne e si allungano i capelli, i denti sembrano tante perle risplendenti e le rose sono i fiori più belli del mondo. Le api ronzano, i cani abbaiano alla luna, i coccodrilli continuano nella loro vita a pelo d'acqua, pronti a balzare contro la prima preda che passa, i cinghialetti trotterellano dietro ai cinghialoni e Lucky Strike ha smesso di fumare e tiene in bocca un filo d'erba, masticandola un pò.

L'inizio di un nuovo anno porta sempre con sé i buoni propositi e qualche preghierina, porta la gioia nei destini ed il desiderio di regalare a tutti qualcosa di nuovo, qualcosa di diverso, qualcosa che non si é fatto mai prima e che però lo si é desiderato tanto, come un nuovo amore, anche di quelli diversi, come il guardarsi negli occhi, ma senza parole perché certe volte bastano i pensieri e certe altre volte neanche quelli. L'inizio di un nuovo anno ti lascia davvero senza voce e ti metteresti lì, di fronte a lei, a guardarle le rughette intorno agli occhi e pensare che davvero sei un uomo fortunato.

I buoni propositi si scrivono sempre sul proprio diario e sono i mattoncini sui quali vorresti costruire i tuoi prossimi giorni, le tue prossime ore e se non hai abbastanza ore vanno bene anche i minuti, basta che siano vissuti al massimo possibile, godendosi un minuto dopo l'altro, un secondo dopo l'altro, secondi fatti da milioni di attimi che non finiscono mai, quasi come il sole di mezzanotte visto a Barrow. Prendi una penna, un foglio di carta grande come il cielo e inizi a disegnare i tuoi pensieri, le tue gioie, i tuoi rimpianti e quello che avresti voluto fare, quello che avresti potuto fare e quello che avresti dovuto fare e non hai fatto e mescoli tutto come fosse una macedonia di frutta fresca e colorata.

Il diario é una macchina invisibile, sulla quale posso salire soltanto io, sedermi, girare la chiave, dare due sgasate, accendere lo stereo, mettere su il mio disco preferito, tirare giù i finestrini ed abbassare la capote perché é un diario cabriolet, di quelli con i capelli al vento, anche i pochi che ti rimangono. I capelli piccoli piccoli, grigi e bianchi e quelli neri un pò più lunghi e grossi e tutti che si muovono al vento seguendo la musica della primavera, del primo sole, del sorriso che si nasconde dietro alle tendine e che fa brillare gli occhi, per un tempo immenso.

Caro Gesù Bambino in questo inizio d'anno portami un paio d'ali così che possa alzarmi in volo e non cadere mai, così che possa seguire i venti se mi fa comodo ma cambiare direzione se mi portano dove non voglio, dove non so. Caro Gesù Bambino, in questo inizio d'anno portami un paio d'ali così bianche che se le guardi devi metterti gli occhiali da sole, da tanto splendono, persino di notte. Caro Gesù Bambino, in questo inizio d'anno portami un paio d'ali per raggiungere il mio amore, visto che é un angelo e gli angeli volano lassù in cielo così in alto che non possiamo neanche immaginarlo.

Caro Gesù Bambino, in questo inizio d'anno portami un paio d'ali e fammi conoscere il mio vero Amore, fai che non rimanga solo in questo mondo così alla rovescia, dove é tutto ribaltato e per conoscere davvero gli angeli devi qualche volta scendere le scale della vita ed andare al piano di sotto, dietro all'angolo, in un cortiletto dove risplendono i panni stesi ad asciugare e si sentono le voci dei bambini che giocano e si rincorrono, che giocano e si rincorrono, come la grande ruota della vita, come la terra che diventa verde, poi gialla, poi nera poi si riempie di neve e sotto la neve germogliano gli amori più belli del mondo.

Caro Gesù Bambino, in questo inizio d'anno portami un paio d'ali, lunghe e forti, che io non debba restare solo, solo con me stesso, che non mi sopporto più. Con un paio d'ali come dico io potrei volare, volare per sempre e guardare tutti da lontano, come se fossi una stella sperduta nel cielo ma mescolata a milioni di altre stelle. Con un paio d'ali come dico io potrei raggiungere il pianeta del Piccolo Principe, tanto per conoscerlo e farci quattro chiacchere seduti, "fumando una marlboro al dolce fresco delle siepi". Con un paio d'ali come dico io potrei anche correre lontano e poi tornare indietro, un pò più ricco di colore e di carezze.

Caro Gesù Bambino aiutami ad aiutare, aiutami ad amare, aiutami a non essere egoista, aiutami a fare dei buoni propositi intelligenti, a non perdermi fra le correnti di quel grande mare che é il mondo, che non sai mai dove ti possono portare. Caro Gesù Bambino, lascia che ti tocchi la mano e te la accarezzi dolcemente, sfiorandola appena, con tutta la delicatezza che c'é negli occhi di una madre, nei desideri di una madre, nella voglia di essere madre. Caro Gesù Bambino, ricordati di me e se mi vedi andare fuori strada aiuta la mia mano a tenere il volante e aiuta i miei occhi a vedere sempre cosa c'é davanti, ma per davvero.

Caro Gesù Bambino, anche se siamo solo in primavera, fai risplendere i miei pensieri come se fossero un campo di grano sotto il sole, giallo il sole, giallo il grano, giallo come l'allegria, giallo come la luce di una lampada che oscilla piano piano per un alito di vento. Caro Gesù Bambino aiutami ad aiutarmi, non voglio restar solo tutta la vita, che se no mi sembra così lunga che non passa mai e mi sembra la notte polare e senza la mia stella non so dove andare.

Grazie Gesù Bambino, buonanotte piccolino, ora dormo anch'io e fammi fare dolci sogni, e se mi stringo il mio cuscino e annuso, fammi diventare un cagnolino e non lasciarmi solo.

Buonanotte piccolino.

la citazione é presa da "Se io fossi un angelo" di Lucio Dalla (1985). GM

martedì 23 marzo 2010

Una giornata senza pretese, poesia e canzone di Vinicio Capossela che apre "Liveinvolvo", l'album dal vivo registrato alla fine del secolo scorso, fra vecchie auto, galli e galline, libretti di istruzione e ottoni dalla Macedonia...

Una giornata senza pretese non sarebbe male che arrivasse domani, una giornata tranquilla, senza l'affanno, senza le armature, senza le spade cangianti, senza i telefonini e i bus navetta, senza i vigili urbani e gli editori che arrivano da ogni parte del mondo, una giornata poco funky, molto funcool e senza uffici e chiavette e computer ed e-mail che arrivano e che partono, collegandoci col mondo anche se rimani lì fermo come un budda meditabondo cicciottone dietro alla scrivania dell'ufficio col cellulare all'orecchio, il caricabatterie su per il culo e il walkie-talkie nel taschino della giacca.

Una giornata senza pretese da passare con la calma olimpica dei vecchietti, dei pensionati con la camicia a quadretti che al mattino se ne stanno lì seduti al bar Verde leggendo lo Stadio ed il Resto del Carlino, incollati alle loro seggioline, con le loro belle braghe di velluto e le loro scarpe grosse che ti ricordano il vissuto da contadini, da coltivatori di patate, che sono l'Oro di Gran Burrone. Nonni che stanno lì a parlar del tempo atmosferico e del tempo che passa. C'é sempre troppo caldo, troppo freddo, troppo sole o troppa pioggia e poi c'é il funerale di Orazio, oggi pomeriggio. E per un Orazio che se ne va c'é sempre un Gaspare che si unisce al gruppo, nelle chiacchere in piazza, nelle briscole al bar o all'ombra del campanile.

Una giornata senza pretese da vivere con la forza delle arzdaure, che si svegliano alle cinque e subito preparano il ragù tanto per profumare la casa e mettono via la conserva, lavano i pavimenti, danno l'acqua ai gerani, preparano il caffé per il signor Marito e poi alle otto e mezza tutte puntuali alla messa, con i loro fazzolettoni in testa e le borsette che dimostrano il doppio dei loro anni. Nonne che si lamentano della pensione, di Berlusconi e delle tasse e poi tornano a casa e per passarsi il tempo tirano dodici uova di sfoglia e mettono su la pentola per i passatelli e si leggono la collezione di Famiglia Cristiana.

Una giornata senza pretese come quelle dei bambini dell'asilo, tutti bellini con i loro vestitini colorati, tutti allegri e tutti contenti, anche se non hanno più i cestini come li avevamo noi ma le merendine Kinder che li faranno diventare tutti degli ovetti, senza collo e con la vita bassa, ma col colesterolo alto. Oggi tutti i bimbi sono belli, sembrano usciti da uno spot televisivo, hanno tutti i vestitini firmati e quando piove vanno in giro con gli stivaletti di gomma, come dei piccoli norvegesi ma con la scorta di Winnie the Pooh e Pimpi, il maialino rosa che ha paura anche della sua ombra ma piace tanto ai nostri piccolini.

Una giornata senza pretese come un giretto al mercato del martedì mattina alla ricerca delle occasioni perdute, tre paia di calze di plastica a cinque euro, due stivaletti di pelo di gnocca cinese a quattordici euro, su signora che le faccio bene, che se non li prende poi se ne pente, una batteria di pentole acciaio inox insuperabile a solo venticinque euro, guardi, signora, ha il manico di teflon, é una garanzia. E l'odore tonificante dei polli arrosto alle otto e un quarto del mattino, mentre più avanti c'é quello salvifico del pesce fritto in cartoccio, c'é la bancarella dei formaggi e dei salumi, che sono tanto buoni e più che sono buoni più fanno male, specialmente a quest'ora.

Una giornata senza pretese per mandare a spendere il mondo, per mandare tutti a spazzare il mare, per lasciarsi indietro pensieri, parole, traffico e rumori, nemici e dissapori e amori che forse non funzionano più, e che stancamente arrancano fra i tornanti della vita in una salita che non sembra finir mai.

Una giornata "io e Te", fatta di sguardi, annusandoci pian piano, sfiorandoci la pelle con la punta delle dita, piano piano, ma senza fretta, senza la fretta che riempie i giorni e che ci brucia addosso e non ce ne accorgiamo.

Una giornata "io e Te" o, se ti piace di più, "Tu ed io".

Semplicemente, una giornata senza pretese.

lunedì 22 marzo 2010

Ta-dah... Ta-dah... Grande novità! Stasera, tanto per cambiare, Guglielmo Maria non é contento di se stesso...

Se guarda indietro di sere come stasera ne ha vissute anche troppe, che uno minimamente normale, come dovrebbe/potrebbe/vorrebbe essere lui, si direbbe che é ora di smetterla. Di smetterla di piangersi addosso, di smetterla di prendersela con se stessi, di smetterla di avere un atteggiamento infantile o indulgente, di non affrontare le situazioni quando si presentano e via così, potrebbe tirarne fuori quindici o venti di cose come queste, a partire dalle aspettative che si fa e che poi non riesce a soddisfare, a finire alle aspettative che ha nei confronti degli altri e che non riesce a soddisfare neppure quelle.

Tra questi estremi del burrone ci passa sopra il ponte del "come" vive. Quel ponte che desidererebbe stabile, forte, sicuro, possibilmente con le pareti per non cascar di sotto e il corrimano perché soffre l'altezza e ne ha paura, che se guarda di sotto gli si stringe il culo. Ma può un ponte essere costruito sulle aspettative? Ma può una vita essere costruita sulle aspettative? No, semplicemente. Questo lo sa eppure non gli entra in testa di cambiare atteggiamento nemmeno se piglia un trapano, si buca il cranio, fa una pallina di pensieri positivi e se la ficca dentro, poi richiude. La pallina esce. Svanisce. Scompare.

Sa solo lui quante ore di colloqui ha fatto, quante pillole ha preso, con quante persone che gli vogliono bene ne ha parlato e in quanti hanno cercato di fargli comprendere, capire com'é fatta quella pallina e cos'é che la forma, che la compone. Tante ore di parole, troppe pillole e gli amici, quelli veri che sono tantissimi anche se si contano sulle dita di una mano e che hanno il pregio di essere sinceri e di volersi fare capire e farlo capire... sicuramente ce n'é abbastanza perché, sempre secondo le sue aspettative, si dovesse ormai essere risolto il "problema" della sua vita.

Invece il "problema" non si risolve e la colpa é la sua, almeno a lui viene da pensarla così. E' giusto, non é giusto, non lo sa, non sa davvero cosa fare, é stanco, esausto. Esempi... non é contento del lavoro, ma non lo cambia, soffre in certe situazioni interpersonali, ma non le affronta diversamente. Sa che non rende per quanto potrebbe ed invece di cambiare marcia si spegne. Rimane lì, passivo, ad aspettare che l'onda di merda del suo mare lo travolga anziché pensare di correre via, lontano. E dopo che l'onda é passata e lui rimange tutto sporco eccolo lì, che si piange addosso, guarda qui, guarda là, tatatà e tutto resta come prima. E la prossima onda è sempre peggio della precedente.

Ora, si chiede, se uno minimamente normale e razionale, come dovrebbe/potrebbe/vorrebbe essere lui, messi insieme alcuni dati di base che indicano nettamente che qualcosa non va, debba rimanere lì, fermo, immobile come una statua. Se senti il terremoto, scappi, no? Poco che fai ti metti sotto al tavolo, per non rimaner schiacciato. No, lui no. Lui sta lì, povero sciocco, aspetta e poi si lamenta dei calcinacci che gli cadono in testa. E' normale, questo? Lui non lo crede, non osa pensarlo.

E le onde? Quelle onde dell'umore che si alzano, si abbassano, si alzano e si abbassano e lui, sulla sua barchetta che aspetta che torni la bonaccia, che non torna mai. E vede isole, vicine, lontane, ma non vi si dirige mai e rimane in mezzo al mare in balia della corrente, quando sa benissimo che dovrebbe fregarsene della corrente ed iniziare ad usare i remi, che li ha, per dirigersi da qualche parte, per trovare terra. E invece no, non lo fa. Si dice che é stanco, che non può remare così tanto, non ce la farà mai a raggiungere il traguardo, l'approdo, una caletta, qualcosa che non sia un guscio di noce nell'immensità del mare.

Forse, anziché provare a mettersi una pallina in testa potrebbe invece provare di togliersi qualche cosa e di essere meno complicato, meno sensibile, meno preoccupato, meno angosciato, meno questo, meno quello, meno... non lo sa. Lui sa che il tutto e subito é impossibile ma sa anche che non deve continuare a vivere il niente e mai. Ma perché deve continuare a considerarsi un infelice quando capisce che i veri problemi nella vita sono altri, perché deve continuare a farsi le seghe mentali? Perché non gli riesce di essere semplicemente e basta?

Ha tutto, può tutto, cosa gli manca? Cosa vuole di più che ancora non si gode e quanto butta della sua vita ogni giorno, ogni ora, ogni minuto che passa e non tornerà mai più? E perché?

Non lo sa, oppure lo sa e non vuole ammetterlo, perché scappa sempre dalle responsabilità.

E, detto questo, ora basta con le seghe, Guglielmo Maria.

domenica 21 marzo 2010

"mi chiamo D....... _ ho paura del buio, di rimanere sola _ Non lo sono mai, forse, ma ho paura _"

Oggi é una bella giornata, mi gira la testa e ho le vertigini, non mi capitava da tanto che speravo di averle superate, lasciate indietro, abbandonate e invece mi accorgo che sono ancora qui con me, dentro di me ed ogni tanto si rifanno sentire, come vecchie amiche. Spero che non mi prenda male anche allo stomaco, che poi sto ancora più male e mi viene da vomitare, mi vien la nausea e mi si vuota anche l'anima. Insieme ai succhi gastrici butto fuori anche tutto quello che mi porto dentro, che accumulo da qualche parte fino a che non ce la faccio più a tenerlo dentro e mi svuoto.

Oggi é una bella giornata, ho visto un film. Un film in bianco e nero ma a colori, rosso sangue, rosso cuore, rosso su rosso, un film bellissimo e straziante, semplicemente un film, ma vero, come una vita. Una vita che si può e si deve chiamare ancora vita, anche se vorrebbe essere chiamata in altro modo, forse. Una vita lontana dalla mia, ma così pericolosamente vicina che potrebbe essere anche mia, forse lo é diventata.

Oggi é una bella giornata, ho preso treni ed aerei, sono stato in hotel a quattro stelle a coccolarmi e ho pianto pensando a chi non posso aver con me, non per egoismo ma per amore, non per scelta ma per imposizione, ma non per sempre, per fortuna. Oggi sono morto, poi sono rinato, poi sono morto ancora, poi sono rinato ancora e così via, ogni giorno, ogni notte, in ogni pagina, in ogni lettera, in ogni virgola, in ogni stilla di inchiostro, inchiostro rosso come il sangue, rosso come l'Amore, l'Amore eterno, quello che le distanze non contano, quello che tieni dentro di te.

Oggi é una bellissima giornata, una giornata divina. Dart Maul non mi ucciderà mai, né oggi, né domani, né mai. Non c'é riuscito ieri, non ci riuscirà oggi, non ci riuscirà domani. Non ci riuscirà mai e anche se ci provasse ogni giorno che Dio ci manda in terra, non ce la farà mai. Io sono più forte, più bello, più intelligente, più sensibile, più fragile di lui. E lui non ce la farà mai, perché con me ci sono gli angeli ed anche la mano del mio Dio che mi difende e mi protegge, anche se io certe volte non vorrei, specialmente il quindici dicembre, quando mi difendo da solo da tutti i mali del mondo perché porto una pietra preziosa con me.

Oggi é una bellissima giornata, passata fra stazioni e aeroporti, residence e camerette senza bagno e senza Amore. Oggi ho chiuso gli occhi ed ho visto una luce, laggiù, in fondo al tunnel, alla fine della strada, alla fine del mondo, in fondo a destra, ai confini dell'Universo, dove il mio Dio misericordioso mi allunga una mano ed io la prendo e poi diventa una mano del mio Amore e non la mollerò più. Oggi mi son visto bello come il cielo, pulito come il cielo, limpido come il cielo, come i batuffoli di cielo che sono le nuvole, accarezzate dal sole, portate dal vento, da un sospiro, da una lacrima, che é la cosa più pesante del mondo.

Oggi é una giornata stupenda, ho pianto e ho schizzato gli occhiali e solo chi li porta capisce che cosa vuole dire. Già se piangi non vedi, ma se piangi e porti gli occhiali, allora puoi solo chiudere gli occhi ed immaginare il cielo, quel cielo, quello pieno di stelle, di stelle di tutti i colori, di tutti i colori del creato. Oggi mi prende lo stomaco, ma poi lo lascia. Oggi mi prende alla testa, me la fa girare, tanto che poi rimango lì per ore per fermare tutto quel che gira intorno a me. Oggi mi prende il cuore, ma per accarezzarlo e poi rimetterlo lì in un piccolo bauletto, in un carillon, sull'isola del Tesoro.

Oggi é una giornata stupenda, posso cagare nel mio cesso, in pace con me stesso, finalmente. Posso sfiorare i miei libri, le mie foto, i miei giocattoli, posso sfiorare me stesso e baciarmi come nessun'altro ha fatto con me. Posso appoggiare la testa sul cuscino, coprirmi, chiudere gli occhi e volare via, sopra le nuvole, sotto le stelle, aprire le braccia e farmi spuntare le ali, aprirle, chiuderle, aprirle, chiuderle, riaprirle e planare, sfruttando il soffio caldo del vento e atterrare su un vulcano e rimanere lì, a guardare la lava fino a farmi venire male agli occhi, fino alla fine, fino a che un alito nuovo, fresco e profumato, mi porta via.

Oggi é una giornata meravigliosa e il mondo é meraviglioso, nonostante tutto.

Ma... forse, proprio per questo.

"mi chiamo sempre D....... _ non ho più paura del buio e di rimanere sola _ Lo sarò sempre, forse, ma non ho più paura _"

sabato 20 marzo 2010

Ieri, per San Giuseppe, un piccione quasi mi ha cagato in testa, ho perso sette capelli per la paura e me ne sono rimasti tre, uno per me, uno per la mia piccola fragola e uno per chi se lo prende, basta che faccia in tempo e prenda il numero per mettersi in fila. Ieri era il compleanno di Mrs.K. che si é alzata alle cinque e un quarto per truccarsi meglio, vestirsi bene, darsi due toni e andare a prendere un cabaret di pastine e salatini da portare al lavoro. Ieri era anche la festa del papà e quindi un poco anche la mia, così abbiamo festeggiato tutti.

La mia piccola fragola mi è venuta a svegliare alle sette meno due comunicandomi in braille che il regalino a Mrs.K. avremmo dovuto darglielo verso le dieci di sera e io l'ho ringraziata per l'informazione così preziosamente anticipata, l'ho tirata nel lettone e le ho dato mille baci, più uno. Intanto Mrs.K. si é presentata a rapporto con un vestito che pareva un televisore che si sta sintonizzando sulla CNN, ma senza il satellite, un vestito che a guardarlo sembrava un elettrocardiogramma di un defibrillatore. I miei occhi hanno cominciato a fare gimmi gimmi e così é iniziata la mia giornata, in cerca degli occhiali. Trovati gli occhiali il vestito di Mrs.K. era in realtà una trasmissione in onde medie, di quelle in cerca di pace, piccole montagne russe perdute nell'etere.

A colazione, latte e cereali e cioccolato, piccole scagliette di cioccolato che quando finisce il latte le trovi tutte sul fondo della tazza e ti dicono mangiami mangiami e io le ho mangiate. Pulire il fondo della tazza dalle scagliette di cioccolato é la parte più bella della colazione, é lo zenit, é il piccolo nirvana delle sette e mezzo del mattino, é farsi una flebo di buoni ormoni che ti aiuta a ripartire di scatto balzando verso l'alto ma senza sbattere la zucca sul soffitto e senza perdere un secondo correre al cesso per le abluzioni quotidiane. La parte più brutta della colazione é lavare la tazza e mettere via il latte, ma, si sa, non si può avere tutto dalla vita.

In casa abbiamo due bagni ma ovviamente stiamo tutti e tre in uno solo, ma quello piccolo. Possiamo scombinare gli orari come vogliamo, come un cubo di Rubik, ma ogni mattina, di ogni santo giorno, ci ritroviamo ad un certo punto in tre nel bagno, stretti come su un vagone della metropolitana ma senza qualcuno che ti tasta il culo. Il più é farci l'abitudine, a non farti tastare il culo, intendo. Se hai nostalgia puoi provveder da solo, strusciandotelo contro il pomello del box della doccia, ma solo se non ti vede nessuno perché sembri una via di mezzo fra Aldo Busi e un portatore sano di emorroidi.

Ieri, comunque, per qualche strana alchimia astrologica prima delle otto ero già pronto. Di solito a quell'ora mi giro dall'altra parte e aspetto un carro attrezzi o una gru che mi tirino su dal letto, invece ieri ero in giocoso anticipo sulla tabella di marcia, come una gioiosa macchina da guerra. Fuori c'era il sole, non come ora che pioviggina e tutto iniziava sotto i migliori auspici. Salutato il mondo virtuale ma reale di Feisbuc e Iutub, i miei due fratelli di mouse, me ne sono uscito, chiudendomi dietro la porta della notte e aprendomi davanti quella del giorno, sfoderando il sorriso Colgate che più Colgate non si può.

Soliti riti a Gran Burrone, giornale, caffè, cazzeggiando sul corso fra i negozi che aprono ed i pedoni che scansano le merde di cane nate in una notte quasi senza luna. A Gran Burrone quelli che incontri per la strada sembrano quasi tutti incazzati, visto che non salutano mai, però io mi rifaccio con la statua che c'é in piazza. Il tempo di una riverenza all'inventore dei fusi orari e poi salgo in macchina pronto al Grand Prix quotidiano, via nel mondo dei pendolari, verso Fast City e l'Isola Felice, verso il lavoro, verso qualcosa che nemmeno io sapevo cosa ma che ci sarebbe stata. Una nuova giornata.

Alla radio sparavano le solite cazzate, devono avere il porto d'armi per farlo così spesso rimanendo impuniti, così nel lettore é finito un cd jazz, del bollettino meteorologico e la strada correva via che sembrava unta, correvano gli alberi ai lati, correvan le case, più veloci quelle vicine e più lente quelle lontane, correvano i segnali stradali, correvano i fagiani e le lepri e l'unico che non correva era il nonno col cappello che occupava filosoficamente il centro della strada con la sua pandina bianca, facendo bene attenzione a lasciare lo stesso spazio alla destra ed alla sinistra della macchina, calcolato millimetricamente, aristotelicamente.

Approfitto di uno slargo e lo passo, mentre davanti mi si profila bianco e blu il Ducato della polizia locale, gli ex-pulismani, ma non mi fermano perché bloccano quello davanti. Siccome ognuno di noi si può giocare un pezzo di culo ogni giornata ecco che io mi gioco il mio, puntando sul verde dell'autovelox così come un infurbito giocatore d'azzardo. Prego tanto che non mi prendano la targa, anche se andavo tanto piano che il nonno col cappello mi ha raggiunto e fatto i fari. Perchè tutto nella vita ritorna indietro, basta aspettare. La targa, quando sono arrivato all'Isola Felice era ancora lì e questo voleva dire che non me l'avevan presa. Almeno spero.

Parcheggio e mi dò un tono pure io, mi schiarisco la voce ruttando da solo in macchina con la forza di Placido Domingo e apro la portiera, pronto alla tenzone. E, subito, schivo la cagata del piccione, che mi sfiora come una stella cometa in caduta libera, destinata al centro della terra. Mi vien da pensare che oggi sia la mia giornata fortunata, passare due secondi prima mi avrebbero fermato i vigili, uscire due secondi prima sarei stato colpito dalla merda interstellare. quante cose in solo due secondi. In effetti due secondi possono cambiarti la giornata facendoti passare dall'allegria arancione alla paura blu o all'incazzatura nera, ma anche il contrario però. Non é il bello della vita?

Il bello del lavoro invece deve ancora venire, sono quasi sei mani che lo aspetto, ma con filosofica sopportazione, uniformato pazientemente ad una forza superiore, rimango qui, come un impietrito gargoyle di Notre Dame che goccia dopo goccia dà con perseveranza un senso alla sua vita. Il bello del lavoro deve ancora venire, anche se preferirei che venisse qualche gnocca, ma, si sa, non si può avere tutto dalla vita, tantomeno le passere degli altri. Il bello del lavoro deve ancora venire. In compenso, se ti butti a capofitto nel mare delle emozioni anche la giornata vola via fra tanti ritrattini e tanti disegnini, fra telefonate e pensieri, fra calcoli e renali, fra euro ed europei, fra stelle nelle stalle e stalle nelle stelle.

L'importante é abbracciare chi vuoi bene, iniziando da te stesso, per passare a lei, a lui, all'altra. Un pensiero non si deve negare a nessuno, ma deve essere un pensiero vero, di quelli che solcano i cieli, non uno di quelli finti, lecchini, laccati, che cadono miseramente con la grazia di un maiale a mensa e si rompono in mille pezzi che se non li togli subito da terra qualcuno li pesta e si fa male. Anche durante il lavoro puoi abbracciare chi vuoi, basta essere se stessi. Gli altri lo capiscono, questo é il segreto. Se gli altri non lo capiscono, don uorry, lo capiranno anche se adesso gli fai consapevolmente compassione e ti guardano come una mucca guarda il treno che passa. L'importante é seminare.

Un mio vecchio capo saggio testa riccia mi disse una volta che quando te ne vai devi lasciare un buon profumo, così ti ricordano più volentieri, per questo scorreggiare é vietato per le convenzioni sociali. Lasciare profumo non é poi così difficile, anche senza spray. Basta un sorriso, una sincera preoccupazione, un sincero complimento. Dopo, vedi tutti col naso per aria a cercar di capire da dove viene quel sottile aroma di vaniglia, di legno di sandalo, di rosa, di cannella, di cannabis, a seconda dei gusti. Quelli che non alzano la testa vuol dire che hanno il naso chiuso e il culo aperto e vivono nell'aria scorreggiona, quella pesante, visto che cala verso il basso, anche se calda. Puoi provare anche con loro perché il profumo di un fiore vince la puzzetta più potente, anzi cresce meglio e diventa più forte, più vivo, con tutto quel concime naturale a disposizione.

Comunque sia, poi la giornata é passata. Che peccato, me la godevo proprio.

Mi rifarò oggi, anche senza compleanni, senza feste dei papà, senza il lavoro, senza il piccione, ma con tanta voglia di vivere, quella che avevo perso, sperduta nella nebbia bassa di una vita scorreggiona, senza sole. Senza quel sole che é appena uscito e che gioca a nascondino con le stelle mentre si insegue con la luna nel cielo, senza quel sole che ci fa brillare come una mina e ci fa esplodere in mille pezzetti, mille piccoli cuori che pian piano, cullati dal vento, scendono a terra odorosi, profumati e misteriosi.

Misteriosi come la vita, come la prossima giornata, come il prossimo amore.

Misteriosi come noi, come me, come te, come lui, come lei, fiammelle che passano, si girano, si incontrano e si lasciano, si ricordano e si scordano, come una vecchia chitarra che riprende vita fra le dita di un giovane musicista grazie allo spartito di una musica dolcissima, del canto degli angeli, del suono delle stelle, della voce delle balene e dei delfini, del sorriso di una piccola fragola.

E se provi tante cose sfiorato da una merda di piccione, vuole dire che la vita é meravigliosa.

Tientela stretta.

venerdì 19 marzo 2010


Stanotte ho sognato un Angelo.

Stanotte ho sognato un Angelo, dalle ali bianche come la neve, ali soffici di piume, ali leggere come fiocchi di neve, ali gentili come una mano che ti sfiora, ali pure come un sorriso, ali grandi come l'Amicizia, ali forti come la tempesta, ali leggere come un sorriso, ali pesanti come una lacrima, ali dolci come un nettare, ali veloci come il vento, ali calde come il sole, ali sincere come l'Amore, ali vere come la gioia di un bambino.

Stanotte ho sognato un Angelo, dalla pelle di mille colori come il destino, pelle soffice di lana, pelle leggera come gocce di rugiada, pelle gentile come uno sguardo, pelle pura come il cielo del mattino, pelle grande come l'Amore, pelle forte come il mare, pelle leggera come un fiore di pesco, pelle pesante come la sofferenza, pelle dolce come il miele, pelle veloce come un respiro, pelle calda come una stella, pelle sincera come l'Amicizia, pelle vera come gli occhi di una bambina.

Stanotte ho sognato un Angelo, seduto vicino a me, che mi parlava, rideva, giocava, viveva, sorrideva e mi accarezzava e io lì con tutta la fortuna del mondo che stavo lì, piccolo piccolo vicino a lui, ma tanto felice.

Stanotte ho sognato un Angelo, che spiegava le ali e mi portava su, nel suo cielo, su, nel suo mondo, su, fra le sfere celesti, su, fra le stelle, su, finché il mondo non diventava un granello di polvere perduto nell'immensità e a me sembrava di poterlo tenere sulla punta di un dito, così delicatamente e così per sempre come se tutte le preghiere che eleviamo al nostro Dio misericordioso potessero ricongiungersi e regalarci tutto l'Amore dell'Universo, e non solo.

Stanotte ho sognato un Angelo, che apriva le braccia e mi stringeva, forte e ancor più forte ed io sentivo il battito del suo cuore confondersi col mio e diventare una musica di sottofondo, limpida come l'acqua, veloce come una cascata, potente come uno tsunami, ricca come le stelle di tutti i colori dell'Universo.

Stanotte ho sognato un Angelo, una carezza.

E al risveglio sentivo ancora il suo profumo, bello come la vita.

Ho chiuso gli occhi e sorridendo son volato via con le sue ali, che mi aveva regalato.

Grazie per le ali, angelo mio. GM

giovedì 18 marzo 2010

Oggi sembrava la prima primavera, l'inizio della storia, la lettera "A", l'alba, i primi battiti del cuore, una luce lontana, due raggi del sole fra le nuvole, un sorriso, le sette sorelle, il numero uno, l'incipit.

Già la intravvedevo in lontananza, dopo la notte insonne, la montagna coperta di neve. Gli appennini, le ande, la grande pianura sotto il cielo, sotto la luce rosa sfolgorava la terra e io con lei. Anche se non ho dormito, appena messo fuori il muso e assaggiato l'aria del mattino ero di nuovo riposato, ritemprato, rinforzato, riscaldato, pronto a partire alla scoperta del tempo prezioso dell'oggi.

In fondo, cos'é il tempo?

Il passato é passato e non ritorna, rimane nei ricordi, lo trovi a mezz'altezza davanti agli occhi, fuggevole. Di ogni giorno passato rimane un pezzetto che si incastra nel grande puzzle della memoria, ogni giorno più fioco, ogni giorno indistinto a mescolarsi nel calderone in ebollizione, nella pentolina a pressione della nostra testolina. Ogni giorno evapora un poco, lievemente, senza dar fastidio, pian piano. Fiocchi di neve che cadono e si sciolgono e poi sfumano nel silenzio dell'aurora e non li trovi più.

Il futuro é futuro e non sappiamo come sarà, facciamo pensieri, congetture, proiettiamo speranze sul telone di un cinema all'aperto, finzioni, voglie, desideri, fortune, pensieri. Chissà, ci chiediamo. Forse, speriamo. A volte potrebbe, ma... domani é un'altro giorno, si cambia, si scende, arriveremo alla stazione o rimarremo fermi lungo la strada ferrata con il nostro carico leggero, tutto proiettato in una piroetta in ciò che verrà, in ciò che sarà, se sarà.

Allora il tempo é l'oggi, l'oggi é il tempo.

Ora. L'attimo. Non fartelo sfuggire.

Prendo il giornale, buongiorno. Due passi sotto il portico, prendo un caffè, lascio un saluto, vado al lavoro, incontro un cliente, saluto, mi rigiro, scrivo, leggo la posta, cerco una penna, dov'é l'agenda, vado, torno, rientro verso sera, verso... perdo tutte quante le due gocce del mio cucchiaino d'olio o me le tengo strette senza godere di ciò che mi circonda? Lo perdo? Me lo tengo fin troppo stretto o mi rilasso, mi allungo, divento un coriandolo, strana alchimia, volerò via...

... e se volassi oggi? Sarei pronto a volare?

Ho fatto tutto, vissuto tutto, provato tutto, goduto tutto, mangiato tutto, guardato tutto o ne manca sempre un pezzo? E mia moglie, avrei potuto amarla di più, meglio, starci più insieme, parlarci, avrei potuto... e mia figlia, avrei potuto starle più vicino, regalarle più di me, giocarci, spiegarle, sorridere insieme... e gli altri miei amori, lei, lui, anche lui, sì, dopotutto lo amo. Anche lei, certo, avrei potuto darle di più, sono stato egoista, che me faccio adesso?

Sono rimasto io solo, solo senza un sorriso giorni interi, ma ne ho ancora, sì, certo che ne ho, li ho sempre avuti anche se non li ho tirati fuori. In questo tempo dell'oggi, allora, decido di lasciar sorrisi come semini sul sentiero della vita, se attecchiscono rimane qualcosa di me e anche se dovessi volar via e sarebbe come se non fossi mai volato via... che casino, ma bello.

Buongiorno, giorno. Sarai un buon giorno, lo so.

Buonanotte, notte. Sarai una gran notte, certo.

Dedicata a chi cerca di pensare positivo, nonostante tutto... GM
Stanotte Guglielmo Maria soffre, intristisce e l'apparenza inganna.

Quello non é lui, non é il suo sorriso, non é la sua gioia. Guglielmo Maria ora resta in silenzio, affida al mare poche parole, un messaggio chiuso in bottiglia che sparirà in balia delle correnti. Guglielmo Maria urla in silenzio, grida in silenzio, dentro di lui c'é dolore lacerante e pianto e spera di dormire, stanotte, invece di affogare negli incubi, nell'angoscia, nelle lacrime trattenute perché gli uomini non possono piangere.

Guglielmo Maria si sente impotente, inutile. Vorrebbe poter fare, vorrebbe poter dare, vorrebbe regalare i sogni a chi sogni non ha, vorrebbe regalare pace a chi pace non trova, vorrebbe offrire serenità e amore a chi non sente serenità e amore. Guglielmo Maria vuole essere diverso, essere più forte, essere migliore, essere di appoggio, essere, semplicemente essere.

Essere un amico, essere un amore, essere vicino a chi non sente nessuno vicino, in questo momento, ora, non domani, ora non chissà quando, ora, subito, anche prima.

Se tutte le forze del mondo, del cielo, della terra, degli astri, del paradiso e degli inferni potessero spingerlo e farlo volare, lui volerebbe là dove non può, andrebbe là dove non può, starebbe là dove non può. Guglielmo Maria é lacerato, crepato, smontato pezzo per pezzo, carne, muscoli, cuore, fegato, ossa, sputo, nervi.

Guglielmo Maria non può gridare, é muto.

Guglielmo Maria prega, prega fortissimamente quel Dio buono che può con la sua carezza far volare gli angeli, restituire la vita ai morti, ridare un figlio a una madre sopra a una croce, guarire i dolori, i troppi dolori che si accumulano uno sull'altro e calcificano e pesano e dannano l'anima e portano alla morte così velocemente, anche se rimandi, rimandi, rimandi.

Guglielmo Maria grida, si tende come un arco, pronto allo scoccare della freccia. L'amore é la sua forza, la vita é la sua fede, l'impotenza le sue catene, il dolore il suo fardello.

Dio misericordioso rimani con noi questa notte e scaldaci con il tuo alito di vita.

martedì 16 marzo 2010

Oggi nell'Isola Felice é partita la sagra delle pelli. Pelli nere, pelli marroni, pelli gialle, pelli senza capelli, pelli su pelli, pellicine, pelli nude scoperte, pelli anche troppo coperte, pelli e mantelli, pelli e coltelli, pelli e fratelli.

Pelli che si mostrano quando accavallano le gambe, pelli che si stringono in abbracci senza amore, pelli osservate, pelli nascoste, pelli accellerate, pelli espresse, pelli intercity, pelli ad alta capacità, pelli e gemelli, pelli e cappelli, pelli in pelliccia, pelli e cartelli. Quanti cartelli, nell'Isola Felice, troppi cartelli.

Troppi cartelli, che non li legge nessuno. Troppi castelli, troppi coltelli, troppi bordelli, troppi cammelli. Io volere dounna, tu vendere me dounna? Io dare due cammelli, per tua dounna. Se tu mi dare dounna io dare te segreto felicità. Tu non dare me dounna? Io mandare te paese di fancoulo, se non mi dare dounna. Se troppo fancoulo in Isola Felice, Isola non più felice. Se Isola non più felice, Isolani molto arrabbiati. Se tu dare me tua dounna, Isolani tornare felici. Tu chiaro cosa dire io?

Io chiamare Guardia e Rex se tu non smettere rompere maroni con dounna dounna, cammello cammello, capito capito? No, perché, te lo ripeto due volte, smammare smammare! Qui si lavora, qui si incontrano la domanda e l'offerta, il compratore e il venditore, il baier e l'aspirina. Via! Via!

Un cappotto color cammello era un simbolo di imprenditorialità, nell'Isola Felice. Ora anche lui giace dimenticato nell'album dei ricordi, come mille altre cose, come mille altri ricordi, altri odori, altri visi, altre coscie, altri culi. Quanti culi nell'Isola felice. Culi rinforzati, culi pusciappati. Pusciap per i glutei, se li vuoi come JLo. Te li prometto, basta il pusciap e mille euro. Facciamo novecentonovantanove, va, che sono buono. Quanti pusciap nell'Isola Felice. Il paradiso dei pusciap.

Bisogna fare attenzione a rimorchiare, nell'Isola Felice. Se ti ci metti d'impegno, ottieni risultati. Ga-ran-ti-to. E' anche troppo facile rimorchiare nell'Isola Felice, chissà perché. Forse perché lei ha bisogno di soldi, sarà per la crisi, sarà perché é così. Lui invece i soldi li ha, perché produce nel Sichuan, quindi arriva e parcheggia il Cayenne. Allora lei e lui si incontrano, si guardano, si accordano, si appartano, si scambiano baci, slinguazzate e cinquanta euro. Poi lui si ricompone e lei rimane una volta di più ferita, anche se ha cinquanta Euro in più. Anche lei si ricompone, pezzo di puzzle nell'Isola Felice.

Bisogna fare attenzione a rimorchiare, nell'Isola Felice. Ti porti in albergo la hostess, lo steward e tutto il personale di bordo. Ma sì, dai, facciamo festa! Festeggiamo, godiamo, ad ognuno la sua. Ad ognuno la sua notte, ad ognuno il suo pezzo di felicità, puoi star sicuro. Ma sì, che vuoi che sian due righe? Se no domattina chi si sveglia, cazzo. Va beh, me le faccio domattina, così mi metto in moto subito, sono una Ducati Desmosedici. Tu invece sei un Ciao, non vai di moda. Ah, la moda... ma é passata di moda, come Domitilla Pizzi.

Bisogna fare attenzione a rimorchiare nell'Isola Felice. Se passa il carro attrezzi sono guai, meno male ha tirato diritto. No, che stronzo, si ferma dal mio Cayenne. Solo perché é nel posto degli handicappati. Minchia mi son dimenticato del contrassegno della nonna, porca l'oca. Dove l'avevo messo, sarà nel bauletto, di fianco ai preservativi. Sai, non puoi andare nell'Isola Felice senza i preservativi, però se li lasci nel bauletto sotto il sole si scaldano e si rompono. Vabbé, cazzi suoi, tanto chi la vede più? Ehi, tu del carro attrezzi, tieni, cento euro e ti scordi del Cayenne, dai, non rompere i coglioni. Duecento?

Bisogna fare attenzione a rimorchiare nell'Isola Felice, ma attenzione attenzione. Ci vuole attenzione, attenzione al cliente, attenzione ai colori, attenzione ai telefoni, attenzione all'attenzione, attenzione ai servizi, attenzione ai bianchi, ai neri, ai gialli, ai verdi, ai rossi, ai viola, ai fucsia, ai blu, ai marroni. Attenzione ai marroni, se passi di qui li perdi, quindi mettiti il caschetto e le scarpe e datti una martellata sulle palle, prova, non fa male. Palle di pelle, povera pelle, povere palle, poveri noi.

Attenzione alla temperatura, se é troppo freddo gelo e ti chiedo i danni per il raffreddore, se é troppo caldo sudo e ti chiedo i danni per le macchie sulla camicia, se non é caldo né freddo non so come stare e mi viene la crisi di identità, quindi ti chiedo i danni. Mia moglie ha sbattuto contro un palo, dottore. Lo scriva, lo scriva che il palo non era segnalato, che non poteva star lì, che si é mosso, lo scriva, mi servono proprio tremilacinquecento Euro. Mia figlia ha vomitato, dottore. Lo scriva, lo scriva, sarà colpa dell'aria condizionata, troppo alta, del riscaldamento, troppo basso, del panino alla merda. A me é venuto duro, dottore. Lo scriva, lo scriva che poi ci penso io a chiedere i danni, dottore, che mi si sono impiastricciate le braghe, lo scriva, lo scriva.

Lo scriva, dottore, lo scriva.

Ma dove lo scrivo che abbiamo finito la carta?

Ho quella riciclata, però dietro c'é una raccomandazione.

Ah, perché c'é ancora qualcuno che ci crede, all'Isola Felice?

lunedì 15 marzo 2010

Anche questa, per fortuna, é una storia vera.

Se vi domandano come si riempie un buco nella pancia, potete rispondere che dipende da come si é creato, il buco nella pancia. Al mondo infatti c'é uomo e uomo e c'é donna e donna e c'é buco e buco e ognuno ha il suo buco, diverso dagli altri. Il mio, per esempio, sembra che non si possa riempire mai, perché non sta mai fermo, quindi pare impossibile metterci dentro qualcosa.

Mi sono accorto di avere un buco nella pancia appena appena adolescente, con i primi turbamenti ormonali, quando i miei pensieri, che nascono nel cuore, cercavano di volar via insieme a tutto l'entusiasmo del mondo ed erano puri e di fuoco e con la voglia di fare, di scoprire e di amare. Spesso, però, quando sembrava dovessero raggiungere le stelle per qualche motivo tornavano alla base, richiamati dalla forza di gravità sprigionata dal buco nella pancia, che é una delle forze più grandi e più tristi del mondo.

I pensieri allora tornavano indietro, ghiacciati, dolorosi, neri e si infilavano introversamente nel buco della pancia, dovunque esso fosse in quel momento, fosse vicino allo stomaco, fosse sul pancreas, fosse su di un neo, sopra una tetta o sotto l'ombelico. I pensieri tornavano a me, richiamati da quella forza potente, e, con un male che solo dopo avrei capito quanto forte, si schiacciavano contro il mio corpo e piano piano mi rivestivano, mi ricoprivano. Più il mio cuore si sforzava, anche senza sforzo apparente, di partorire pensieri di fuoco, pensieri caldi, pensieri d'amore più questi ritornavano indietro e mi si attaccavano intorno come una glassa di scadente cioccolato al minimo sindacale di cacao.

Glassa oggi, glassa domani, ormai mi sentivo un mottarello senza stecco, inutile, sterile, malinconico, di quelli che non riesci neppure a mangiarli con gusto perché ti sporchi tutte le mani. Sicuro che da fuori sembravo un bel cornetto, quello col posto per le mani, fatto apposta per essere gustato, essere accarezzato, essere scoperto poco a poco, morso a morso, con appassionata dolcezza. Da dentro, invece si vedeva che ero uno scarto di fabbrica, una terza scelta, un ghiacciolo monco, sciolto sotto il sole, al gusto di cerume.

Però a diciott'anni fai presto a raccontarti delle storie e fai presto anche a crederci, alle favole che ti racconti, come per un pubblico babbeo da un esperto narratore. La glassa non volevo vederla, ma c'era, non volevo toccarla, ma pesava, non volevo guardarla, ma essa brillava umidiccia nella sua marronitudine spenta di pensieri schiacciati da una pressione sette volte sette quella atmosferica, ma per me era come se non ci fosse. Me la portavo in giro quaranta giorni e quaranta notti usando tutta la forza che avevo, rimanendo in area di galleggiamento quasi senza ossigeno. Ma non volevo accorgermene e così tiravo avanti, anche se non me la tiravo. Io la lasciavo crescere, e lei cresceva.

La prima luna fu lunga e stressante, non più adolescente ma nemmeno uomo, anche se a me sembrava il contrario, perché mi dava fiducia. Ero tutto bozzolato dalla glassa del buco della pancia, cosa che mi impediva anche di stare al cesso in santa pace, però riuscivo ancora a confondermi bene, tutto sorrisi e gentilezze. Dentro però morivo poco a poco, la mancanza d'aria mi seccava i polmoni, li accartocciava e mi non mi faceva respirare, tranne proprio quando non ce la facevo più e allora mi sfogavo. Il cuore faceva il superlavoro, per fare uscire amore dalla larva che ero diventato, ma ormai confondevo l'amore con qualcos'altro e non mi seguivo più nemmeno da solo.

La seconda luna non é mai esistita nella realtà e forse per quello mi sentivo meglio. Me la ricordo davanti alla baracchina dei gelati mentre si aspettava il pulmino che ci portava a lavorare, io, lei e la glassa.

La terza luna fu corta e passionale, ma non ero io quello che stava accanto a lei, era il mio sims. Ero diventato un videogioco. Un videogioco ben fatto, certamente, ma sempre un videogioco. Un surrogato del mondo nel quale hai la pretesa di essere il tuo Dio, di poterti guidare e di poterti portare, ma avevo sempre il culo incollato alla sedia elettrica, collegato con gli elettrodi alla realtà virtuale, al mondo della frutta candita, alle scelte che qualcun'altro faceva per me, fosse il mio Dio (Dio mio!), la mia seconda o la prima ridotta, più probabilmente la retromarcia.

La quarta luna mi portò a quel paese e ne aveva tutte le ragioni del mondo. Aveva le ragioni sia del mondo reale che del mondo virtuale insieme, infatti non é male riuscire a fingere anche con se stessi, fingendo di fingere, fingendo di vivere. Vivere fingendo o fingere di vivere, ma cosa é meglio? Certo sarebbe meglio vivere per vivere ma, causa la glassa, ormai fingevo di fingere ed ogni sera mi accartocciavo piangente dentro al bozzolo, sotto la glassa ed il cerume aveva lasciato il posto alla blefarite e alle lacrime secche. Non avevo più sali né acqua, fingendo di aver vita.

La quinta luna mi diede la mano e io le allungai le bende della mummia. Spero non si sia mai accorta della carne putrida che sotto era il paradiso dei lombrichi. A me però pesava sempre di più e mi piegavo sotto il peso dei sensi di colpa, sotto il peso della glassa del buco nella pancia, ragionando in termini sequenziali sotto i pesi che ormai portavo ogni giorno con me. Non riuscivo più a vedere il sole, ne dimenticai persino l'esistenza ed ero diventato un disperato, erotico stomp.

La sesta luna voleva cavalcarmi a lungo, ma io resistetti perché non volevo altri pesi, altre storie tristi da raccontarmi, altre bugie alle quali credere. Forse (forse!) qualcosa cambiava in me, diventando più vecchio, come mi raccontavo io. La glassa si induriva, si seccava, lasciava passare il freddo, il ghiaccio, le notti insonni, ma anche il caldo, l'afa, la puzza di sudore ed il bruciore negli occhi dopo che le lacrime si erano di nuovo seccate tutte. La glassa puzzava di merda, ma con una bella spalmata di arrogance si riusciva a sopravvivere.

La settima luna era quella del luna park, per dirla alla Lucio Dalla. Peccato che fosse saltata la corrente e neppure i generatori fossero in funzione. Io mi bloccai in cima alla ruota panoramica, da dove potevo vedere tutto il mondo. Più che ad un uomo assomigliavo alla cimice di Men in Black, quella che cercava la cintura di Orione. Io più modestamente mi sarei accontentato di una cintura di sicurezza, per non cadere dall'ultimo piano, ma non riuscivo a vedere neanche quella, visto che non c'era la luna ed il mondo era fatto di moplen.

Alla fine l'ultima luna mi ha accettato per come sono, cullandomi nel sogno e riuscendo a farmi vedere il mondo a testa in giù. Come dice lei "non esiste un giorno così lungo per cui il sole non possa permettermi di tornare, pura e meravigliosa, ad accarezzarti gli occhi fino a farti dormire sereno con la mia carezza". Nella purezza della luna e della notte alla fine la glassa si é rotta ed io sono uscito dall'uovo.

Ed ora siete liberi di scrivere ciò che volete, sono diventato una lavagna e lì a destra ci sono i gessetti colorati e il cancellino.

Colorate, gente, colorate.

Un grazie speciale al Cavaliere Jedi, lui sa il perché... GM

domenica 14 marzo 2010

Ieri sera da qualche parte nel mondo sarà sicuramente piovuto perché sono andato a sentire un concerto jazz a Gran Burrone insieme a Jonni Whitening, quello del dentifricio. La sala era piccola, raccolta, rotonda, profonda quanto basta, alta abbastanza e con le sue belle uscite di sicurezza da usare se ti scappa improvvisamente da pisciare e non vuoi passare sulle teste di chi come te é lì per vedere i colori della musica.
Sarà stato dall'alto medioevo che non andavo ad un concerto jazz, che non mi ricordavo neanche come fossero fatti gli strumenti e i musicisti ma sarà stato dal basso medioevo che non andavo fuori al saturday evening con qualcuno che non fosse Mrs.K. o sua sorella, Giovanna la Pazza. Che sia l'inizio di un nuovo Rinascimento? Nel caso vorrei trovare un nuovo Savonarola, tanto per parlare un pò dei roghi ed una nuova Giovanna d'Arco, la putrella d'Orleans, per vedere se davvero vuole rimanere vergine anche davanti ad uno come me.

C'era parecchia gente al concerto jazz, forse tutti i parenti dei suonatori, infatti si salutavano, si scappellavano e si raccontavano cazzate da stagione delle pioggie. C'erano qualche labbra rifatta, qualche tetta rifatta, qualche ricotta, una ribollita e un ribes solitario appeso al lampadario. Volavano nell'aria odori, profumi, puzze e parole, tante parole che prendendone alcune a caso si poteva imbastire un discorso di Emilio Fede per il cappotto del premier. Le parole pesanti scendevano a terra, quelle leggere salivano in alto, nella cupola, ma le parole normali rimanevano all'altezza della testa ed ogni tanto qualcuna ti entrava in un orecchio, spingendo in là il cerume. Gran Burrone é un paese piccolo, infatti la gente mormora.

Alle dieci, con la puntualità di un treno svizzero, i musicisti si sono messi in moto. Erano tre, uno abbronzato ben più di Barack Obama, uno pelato con l'orecchino, uno normale col contrabbasso ed uno con in testa il mocio Vileda che suonava il Sax. Quello normale era straordinario, quello abbronzato ogni tanto belava come una pecora nera, quello pelato ci dava di schiena e quello col Sax era di Gran Burrone, ma sembrava lì per caso e guardava il soffitto incuriosito.

Quando parte la musica io chiudo gli occhi e apro le orecchie, visto che non sono capace di far due cose in una volta, specialmente in pubblico, persino respirare e contare le pecore. Una volta forse ci riuscivo, ma ora, dopo le guerre postatomiche mi riesce quasi impossibile, quindi tutte queste cose me le tengo per me stesso. In sala non c'era un palco, tranne qualcuno su qualche testa qua e là. Ma cazzo, potevano togliersele, mi chiedo che cosa vieni a fare ad un concerto jazz con le corna che rovinano l'acustica e attirano gli sguardi dei masculi sulla labbra della tua signora, eddai!

Però quando é partita la musica é stata tutta un'altra cosa, un'altra vita e i colori sgorgavano fuori come se fossero lì pronti a partire sin dall'inizio del mondo. Il pianoforte era una grande ostrica piena di perle in bianco e nero, come un collier. Il contrabbasso era una donna grassa, dai fianchi larghi e la testa sottile, appena uscita da un quadro di Modì, mentre la batteria si scomponeva in una telepromozione di pentole, piatti e bacchette da ristorante cinese, ma col cameriere nero. Il Sax erà lì, in un angolo, e ogni tanto spuntava fuori che sembrava la sirena di una nave nella nebbia nera di Porto Marghera.

La musica é a colori, se non lo sapete, ma se ne accorgono solo quelli come me, anche se sono più felici ma meno belli. L'ostrica spande una musica blu e qualche volta trasparente, come le gocce d'acqua o i fiocchi di neve nel vento. L'ostrica la devi ascoltare in orizzontale, possibilmente alla stessa altezza il che crea qualche problema di levitazione e di digestione specialmente dopo mangiato. Qualche volta il blu ti lambisce i piedi, in questo caso forse non ti entrano più nelle scarpe. L'ostrica va ascoltata con le infradito, ma senza sigaro.

Il Sax fà una musica rosa, rosa fucsia e qualche volta rossa, come la faccia di quello che lo suona. La musica del Sax sale verso l'alto attorcigliandosi come un serpente attorno ad un albero di mele. Devo ancora trovare la musica di un Sax che faccia la lap dance, anche se é sensuale lo stesso. La musica del Sax é ubiqua, perché i musicisti possono spostarsi dove vogliono e, se trovano una bella figa, anche sedersi sulle di lei ginocchia a patto di non essere troppo pesanti.

Il contrabbasso é eccitante come un film porno, ma il perché lo so solo io. La sua musica é marrone e arancione, come i passi del sole sul mare, come le impronte di un lupo sopra la neve, come i battiti del cuore, che non sono rossi neppure loro. Il contrabbasso sembra sempre l'ultimo a contare, invece è quello che dà il ritmo a tutto, come il respiro. Quando tutti tacciono, l'unico che senti é il contrabbasso, ma all'altezza del cuore.

La batteria, quella di Barack Obama, sembra una videoconferenza perché la vedi anche alzando gli occhi, riflessa nel cielo trasparente delle nostre anime. Quando suona la batteria c'é da aver paura, può essere frusciante come Jack, ma se esce dal gruppo allora il cielo diventa scuro e pieno di lampi. Il suono della batteria é giallo come i fulmini e secco come un brut de brut, ma ti arriva dritto al diaframma in tre nanisecondo, tu non te ne accorgi neanche, come quando ti innamori di un Cavalieri Jedi. Della batteria, se scoppia, rimangono solo particelle sospese nell'aria e prese da un vortice e portate sin nella nebulosa del Cavallo, dove diventano un fuoco artificiale.

L'unica cosa sicura in un concerto jazz sei tu.

Fermo lì, come un isola del Pacifico, ma investito dallo tsunami.

sabato 13 marzo 2010

Le stelle non sono solo dei bomboloni di idrogeno e di elio laggiù nel cielo profondo, non sono solo le luci lontane, non sono solo miliardi di miliardi disperse fra le galassie dell'universo, ma sono qualcosa di più e qualcosa di meglio e ognuna ha la sua storia da raccontarci.

Le stelle sono di mille colori e di mille grandezze, stanno da sole e in coppia e ogni tanto si incontrano in un punto tutte insieme e iniziano a danzare e danzando cantano la loro canzone e cantando sorridono e sorridendo ti guardano e guardandoti ti amano, anche se sei l'ultimo stronzo sulla Terra e non ti ricordi neppure il tuo nome se ti riconosci allo specchio.

Qualcuna di loro ogni tanto sfreccia qui vicino, ci sfiora e lascia la sua scia leggera nell'aria, gioia incosciente nebulizzata, polvere d'oro galleggiante ad un passo da te che ti basta allungare la mano per cambiare colore, per passare dal rosa all'arancio, dal limone alla ciliegia e diventare ricco come non potresti esserlo mai e ti basta respirare per vivere, per vivere bene.

Le stelle talvolta vengono a trovarci nei sogni, anche in quelli ad occhi aperti, anche in quelli dei poveri, anche dentro le baracche, nei sogni fatti sotto le coperte di cartone, anche in quelli, certamente, perché le stelle sono democratiche e si fanno vedere da tutti, anche se preferiscono gli ingenui, i puri e i bambini piccoli, perché loro non si mettono maschere che nascondono il cuore. Infatti ci vuole il cannocchiale del cuore per veder le stelle e se non ce l'hai vedi solo dei lumini, che tanto vale andare al cimitero, se non ce l'hai magari credi di vederle, invece vedi tanti accendini che prima o dopo si spengono, quando finiscono il gas con una scoreggia sibilante.

Se le stelle ti abbracciano ti portan con loro e allora voli sopra il mondo, come sulla slitta di Babbo Natale, come se tu fossi la piuma di Forrest Gump che sa dove andare, non quella che viene portata chissà dove dal vento. Le stelle sanno sempre dove devono andare e se vogliono venirti a trovare puoi nasconderti dove vuoi e loro riescono lo stesso a pescarti. Puoi nasconderti in casa, puoi infilarti nel letto, puoi spegnere le luci e far silenzio, puoi anche far finta di non respirare, ma se una stella é per te, quella stella ti scoverà ovunque tu sia e qualunque tempo faccia fuori dalla porta. Una stella non si preoccupa per tre gocce d'acqua, non si preoccupa per due fiocchi di neve o per il vento gelido.

Il bello delle stelle é che vivono milioni di anni e quindi per loro siamo veramente dei sospiri sfuggenti, così ce la mettono tutta per donarci la felicità. La felicità che a noi sembra impossibile per loro é un respiro, un singhiozzo. Quando una stella ti vuole bene allora tu sei inondato d'amore, tantissimo amore che se anche lo regali a piene mani un pezzettino per uno a tutti quelli del mondo te ne rimarrà sempre così tanto che ti basterebbe per dare mille milioni di baci ad ogni persona che incontri per strada e te avanza anche un pò per la tua amica del cuore.

Se le stelle ci potessero parlare avrebbero la voce più dolce che esista, la voce più cara, la voce della mamma e la voce del papà, la voce di quelli che non hanno voce, la voce della nonna, quella che ti portava una mentina quando ti metteva a letto e in silenzio diceva una preghiera per te. Se noi volessimo ascoltarle, se volessimo sentirle non lo dimenticheremmo mai, neanche in una giornata di sole, neanche in una notte senza luna, neanche in uno spicchio di cielo sepolto fra case e palazzi, neanche in un vicolo puzzolente, neanche nella stanza 26.

Se le stelle non esistessero non esisteremmo neppure noi, che siam fatti di polvere e di terra e di acqua e di sputo però siamo destinati a scomporci in atomi piccolissimi che portati dal vento vengono raccolti da una stella cometa e poi diventiam parte della sua coda, quella che ci accarezza, quella che ci confonde, quella che ci fa vedere le cose come non mai, senza mai tornare indietro, perché indietro non si torna.

Se noi non esistessimo non esisterebbero neppure le stelle, perché mancherebbe la materia prima per comporle, per plasmarle, per farne un tutt'uno col cielo, un tutt'uno con la terra, un tutt'uno con ognuno, un tutt'uno con qualcuno. Dentro ad ogni stella c'é la nostra anima, nuda. L'anima che poi prende forma e diventa carne, osso, acqua e sangue e inizia a camminare per le strade del mondo fino al giorno in cui ritorneremo indietro, di nuovo tutti insieme e magari tutti insieme ricominceremo a rifare il giro, senza smettere mai, perché noi siamo le stelle.

E se qualche volta le stelle non si vogliono più bene brillano e risplendono come non mai fino a che qualcuno non se ne accorge e va ad accarezzarle prendendole per mano e mettendosi a ballare e col cuore dà il tempo e coi suoi colori si scioglie insieme a loro in un abbraccio stupendo stringendole forte, piccole e frizzanti...

... come le nostre vite.
Il Toscano é il compagno di avventure quando mi faccio i cazzi miei, in fondo a sinistra.

Chiudo la porta verso la quotidianità e se la stagione lo permette ne apro un'altra, quella verso il mondo, verso i tetti, i gatti, i comignoli e le rondini, le vespe e le piante, a parte i cactus che sono morti quasi tutti per la neve, ma il gelsomino no. Se la stagione non lo permette io me ne frego e apro la porta lo stesso, però facendo attenzione alla pleurite. A me piace stare lì, con il Toscano. Lo scarto, lo annuso, lo inumidisco, faccio fuoco e tiro due boccate, lunghe e con tutti i vizi sulla faccia della terra stampati sopra. Lo so, lo so, che fa male, ma che ci volete fare, siamo fatti così.

Di solito metto su un pò di musica, nel pc, che non ho lo stereo. Frugo fra i cd, soprattutto quelli vecchi, per venti minuti e poi metto su sempre quei due o trecento, tanto per cambiare. Non ascolto la musica, mi lascio trasportare, insieme al mio Toscano, fra le mille sensazioni e rimbalziamo sulle pareti, sui libri, sulle sveglie, sui videogiochi e sui cappelli. Qualche volta ci fermiamo, qualche volta continuiamo a rimbalzare come una pallina matta qui e là e questo mi dà tanto il senso della vita. Spesso rimbalziamo sul computer e diamo una bella smusata sulla tastiera. Chi non rimbalza non mi merita.

Una volta io e il Toscano ci siamo fermati su di un pacco polveroso, con dentro mille fotografie. Ne ho sbirciata una ed ho capito che non era il caso, dall'altra parte c'erano i miei diciott'anni, quelli di un secolo fa. Un'altra volta siamo planati sulla collezione di Tex, fermandoci sulla Mesa, ai confini della Riserva. Siamo entrati e due navajo ci hanno offerto un pò di pejote, poi siamo rimasti lì a contar le stelle, ma non ho vinto io. Un'altra volta ancora io ho sbattuto contro il dizionario di italiano mentre il Toscano, che lui l'italiano lo sa già, ha continuato da solo a rimbalzare per settanta minuti, per poi perdersi nel vuoto interstellare. Gli ho dedicato un asteroide, ma credo sia diventato una stella cometa.

Ogni tanto crolliamo bruscamente, quando finisce la musica che non ce ne accorgiamo. Allora é come se si fermasse il vento, come se la terra finisse di respirare, come un cuore che smette di battere, come se le palpebre rifiutassero di chiudersi e aprirsi. Di solito non é una bella sensazione, abbattersi sul pavimento. Troppo duro per rimbalzare ma troppo morbido per morire. Lui comunque é lì, vicino a me, nei secoli fedele come i carabinieri di Pinocchio, ma senza il Campo dei Miracoli.

Quella volta che il Toscano rimbalzando é finito dentro le mie prime scarpette ed io con lui, siamo stati assaliti da un vortice di sensazioni, tutte rosa e azzurre, con tanto talco ed una macchinina. C'era Checco, il mio somaro, quello della Giordani. Ora i bambini vanno in giro con dei piccoli Suv, tanto per abituarsi, ma noi andavamo in giro su di un somaro, tanto per abituarci. Chissà dov'è finito Checco, chissà dove finiscono i somari quando non sono più con te, ci sarà un paradiso anche per loro, che ci hanno fedelmente accompagnato nella nostra piccolezza?

Spesso rimbalziamo sulle riviste di psicologia, di teste e di cervelli, ci infiliamo in mille storie strane, ai confini della realtà. Così ci consoliamo un pò, io e il Toscano. Lui mi guarda con il suo occhio incandescente mentre io lo guardo con i miei e ci facciamo un cenno di intesa, come dire che siam forti, se stiamo insieme. Salutiamo l'allegra compagnia e, sulle ali della musica, planiamo ancora un pò, come il gabbiano Jonathan. Fino alla fine.

Fino alla fine della musica, fino alla fine del Toscano, fino alla nostra fine.

Poi entriamo nel ciclo galattico di riciclaggio e diventiamo una nuova vita.

giovedì 11 marzo 2010

Questa è una storia vera.

Correva un anno, qualche anno fa, quando per gli azzurri in mutande che si riempiono di falli tirandosi le palle, iniziava l’avventura al mondiale. Avevano quasi tutta l’opinione pubblica girata in contromano a causa degli scandali calciòpoli, moggiòpoli, arbitròpoli e mònopoli, tanto che tutti pensavano che al massimo con i nostri fortissimi si potesse affittare uno sgabuzzino a Bastioni Gran Sasso nei bassifondi di Ingolstadt per guardarsi in pace gli ottavi di finale.

Invece si scoprì che ci si poteva permettere una suite presidenziale al Parco della Vittoria di Berlino, ma siccome il presidente del Consiglio non era Berlusconi se non altro ci vennero risparmiate le probabilità, gli imprevisti, puttanopoli e le cazzate di Travaglio.

Nel frattempo io mi grattavo spesso il culo.

Una specie di fastidiosissimo eczema preterintenzionale aveva preso alloggio nel solco fra le mie chiappe circa una spanna sopra la fine della tubatura intestinale. Col primo caldo di giugno la cosa era degenerata in modo tale che mi toccava girare con uno scopino del cesso telescopico a portata di mano per darmi una cipollata in santa pace senza farmi notare in modo particolare, mentre assumevo l’aria interessata di chi ammira i quadri di Van Gogh al Kröller-Müller Museum nella savana dell’Hoge Veluwe.

Dopo un certo tempo, non potendone più, con la massima vergogna andai a consultare una dermatologa della bassa che, mettendomi a culo busone e osservandomi professionalmente con una lente d’ingrandimento, emise la ferale sentenza… mi sarei dovuto impiastricciare con una costosa pomatina puzzolente tre volte al giorno lasciando “respirare la parte”, in pratica girar per Fast City senza mutande dentro un caffettano arabo.

Per un po’ ci provai, girando a braga larga. I primi risultati furono incoraggianti, il prurito nel fondo del fiasco pareva scomparso, a parte qualche ritorno di fiamma assolutamente temporaneo, però al suo posto pian piano mi veniva da grattarmi gli stinchi. Nel giro di qualche giorno la “parte” era liscia bellissima e bionda come la pubblicità del Mulino Bianco però appena sopra ai piedi ero rosso e mi grattavo da lì fino alle ginocchia.

Telefono alla dermatologa che mi fa tornare per un’altra seduta.

L’eczema pareva diverso, quindi dovevo cambiare la pomata, ripassare in farmacia e girare coi calzini bianchi e corti. Passo in merceria a comprare i calzini e nell’uscire dal negozio mi viene da grattare un’ascella. Sulle prime non ci faccio caso, ma la mattina dopo mentre nudo mi faccio la barba alzando il braccio destro noto una macchiolina rossa a quattro centimetri dal pelo. Lì per lì non me frega un cazzo, mi metto i miei calzini bianchi, le braghe larghe e parto per il mondo.

Quattro giorni dopo ho le ascelle in fiamme, i polpacci rosa ed le chiappe chiare. Richiamo la dottoressa che meravigliandosi della situazione mi propone l’ennesima visita allo studio. Ci torno prima che posso con due sacchetti del ghiaccio nelle cavità ascellari ed esco con un barattolino omaggio di pasta di fissan da mettere su tre volte al giorno e stanco ma felice me ne torno verso casa con l’aria di chi cerca una ragione alla propria esistenza sfortunata.

Alle nove pisciando mi viene da raspar a fianco dello scroto.

Mi metto a letto perplesso ma tutto impomatato e senza dir niente a Mrs.K. mi giro dall’altra parte e dico le preghiere della sera. Il mattino dopo conferma le fosche previsioni del Colonnello Bernacca, tutta la pelle intorno ai maroni sembrava porporina. Mi lavo con la massima dolcezza e butto lì un po’ di pasta di fissan, tanto per scrupolo.

Due giorni dopo durante la pausa pranzo chiamo la dermatologa sul cellulare sottovoce e con l’aria colpevole di chi confessa il suo più grande peccato le chiedo udienza per qualche ora dopo. Alla richiesta dei sintomi ho iniziato a parlare come Emilio Fede al telegiornale e credo che lei non abbia capito un cazzo ma era tanto professionale che non me lo fece capire. Più tardi mi vergognai moltissimo senza mutande davanti a lei che mi guardava con la lente di Sherlock Holmes.

Mi propose una crema idratante, un detergente all’olio e dei bidè all’acqua di Lourdes.

Nei giorni seguenti pareva che le cose andassero decisamente meglio. Era ormai luglio fatto ed io, come da buona tradizione familiare, partivo per due settimane di vacanza a Milano Massiccia con una bella collezione di solari, pomate, creme idratanti e pasta allo zinco pronto a combattere tutte le mie guerre. Dentro di me una volpe urlava nel deserto, come Rommel.

Due giorni e avevo già l’eritema.

In farmacia mi propongono un’antistaminico, ombra, maglietta e buone letture. Approfitto della situazione per farmi i cazzi miei sotto l’ombrellone ma mi sentivo spaesato come una matricola il primo giorno di università e anche un pochetto preoccupato visto che il rossore nei maroni continuava a non passare. Passato l’eritema sul fronte occidentale, intanto, il nemico sembrava cedere nella battaglia per le ascelle, anche se teneva posizione sui polpacci. L’Italia vince i mondiali e io chiamo la dottoressa per studiare la strategia finale, lei mi dice di prendere il sole e fare almeno un bagno tutti i giorni.

Mi ritorna l’eritema.

Mando a fanculo Rommel e me ne torno sotto l’ombrellone con Mrs.K. che si incazza perché non sto con lei e con la bambina, ma me ne frego perché dopo tre giorni si torna a Fast City immersa in una bella afa di merda, alla vita quotidiana. Aggiorno la dottoressa sulla situazione, l’obiettivo è passare agosto perché lei va in ferie, quindi mi munisce di ricette terra-aria pronte all’uso a seconda dei fronti di guerra aperti, una per il culo, una per le palle, una per le ascelle, una per la crema idratante e la pasta di zinco, una per il detergente all’olio e per l’acqua di Lourdes.

Non so come passa agosto, una convivenza forzata tra pruderie e pomatine, fra bidé e cappellino, tra magliette nere, braghe larghe e calzini bianchi sul bordo di un laghetto del Trentino, tirando sassi alle folaghe e facendo l’haka dei maori invece di masturbarmi. Come Dio vuole, riesco a tornare a casa dopo ferragosto, ma tutto sudato.

Che bella la normalità, il lavoro, le strade vuote che non sono iniziate le scuole, le lunghe serate in compagnia del karaoke della piazza e il ritornello dei mondiali “popopopopooo, campioni del mondo…” che spopola fra YouTube e RaiUno, senza Rete 4 perché il premier è comunista. Mi godo tutte queste cose mantenendomi vigile e diligente nella lunga battaglia che si svolge sull’epidermide, senza temere il peggio.

Che, puntualmente, arriva.

Lunedì 4 settembre 2006 mi sveglio ricoperto da uno strato continuo di squame rossastre, come una carpa giapponese. Ne ero pieno dal collo alle caviglie, dappertutto. Resistevano i piedi, le orecchie, il viso e i piedi, tutto il resto, anche in luoghi difficili da immaginare, era terreno del nemico. Due giorni dopo, mentre Natascha Kampusch appare per la prima volta in tv dopo il suo rapimento, entro mestamente e a testa bassa nello studio della dermatologa. Fra il diploma di laurea e le riviste specializzate, le creme e la sedia ginecologia (lo studio è a part time) io rimango nudo, in piedi, sezionato, esplorato, cannibalizzato, come una mappa strategica prima della battaglia campale.

Metadone e biopsia. Il referto arriva in pochissimo tempo, bisogna usare le atomiche. Cazzo, il metadone! Mi mancava! La biopsia! Mi mancava! Mamanca, celò, mamanca, celò. Ora celò tutti.

Mercoledì 13 settembre, poliambulatorio di Castrum Nasicae, ore 15. Segno professionale di penna biro sul braccio sinistro, mentre mi giro dalla parte opposta mi viene segato via un millimetro di pelle con una specie di cannuccia di McDonalds. Non mi giro perché sono sensibile, il sangue mi da fastidio, soprattutto se è il mio. Anche la teutonica Mrs.K. si gira dall’altra parte, io accenno ad uno svenimento e mi danno una caramella alla fragola della Coop.

Prendendo il metadone per bocca avevo iniziato a contenere il nemico che si ritirava sempre più indietro, liberando ampi spazi dai fronti. Quello occidentale era una bazza, quello orientale un po’ meno, a settentrione non vi erano segnali di resistenza mentre a meridione stavo liberando le caviglie dal giogo del nemico. Sul fronte meridiano, intorno ai maroni, la lotta era cruenta, ma leale, da uomini con le palle.

Giovedì 21 settembre mi comunicano i risultati della biopsia. Negativa, non c’è nulla. Sono dei mesi che combatto contro il prurito e non so neppure a chi dar la colpa. Meno male che il metadone funzionava, dopo due settimane le atomiche avevano fatto il loro dovere. Il nemico era praticamente sparito ed io potevo rilassarmi un poco, tornando ad una banale guerriglia a base di pomatine e creme idratanti negli ultimi focolai di rivolta. Troppo bello per essere vero.

Mercoledì 27 settembre, giorno di paga, faccio la doccia mattutina cantando “La jena si è svegliata e a mezzanotte va a caccia di umoristi lungo i boulevard” quando, guardandomi allo specchio, noto uno strano chiarore sopra la fronte. Scosto i capelli e osservo meglio ma rimango un po’ perplesso. Mi vesto, con uno strano presentimento, vado al lavoro in una giornata che non passa mai, fanculo anche a lei, ed alle sei di sera mi presento dal parrucchiere di mia mamma. Mi taglia i capelli corti, more solito, ma mi fa notare alcune macchioline di pelle candida che risaltano nella boscaglia.

Alopecia Areata multilocularis.

Dopo tre mesi in testa avevo qualche ciuffo qua e là immerso nel riscaldamento globale dell’era postatomica. A Natale sembravo un leopardo dalle orecchie in su ed un coglione dalle orecchie in giù. La dermatologa non si faceva più trovare, io avevo smesso di cercarla e mia figlia mi guardava la testa scossando la sua. Un mio cuginetto, durante le feste, mi chiede se avevo i pidocchi mentre sua mamma con un calcio nel culo lo fa uscire dalla finestra, come la stella cometa coi Re Magi.

A marzo con l’arrivo della primavera l’unico pezzo di inverno rimasto era la mia valle degli orti da caduta di capelli, ero un albero senza le foglie, una notte senza stelle, una merda senza il gramadello.

A maggio ero praticamente pelato, salvo una bella incollatura nera che partendo da un orecchio arrivava all’altro ed a una croce di Sant’Andrea proprio in cima alla capoccia. Il 20 del mese partecipo alla rimpatriata delle nozze d’argento col diploma alle mie vecchie scuole superiori e i miei vecchi compagni mi guardano con l’aria che di solito si dedica ai drogati che ti chiedono l’elemosina alla stazione di Amsterdam. Nessuno commenta. Meno male.

A giugno, coi primi caldi mi rado a zero, sembrando un uovo e una mia amica perlomeno sincera mi chiede perché ho quell’aria da cattivo. Mi sento vecchio stanco sconfitto incazzato e con l’alito che puzza. Inizio ad evitare i miei simili, richiudendomi in casa, mi rispuntano la depressione ed i propositi di farla finita con il genere umano. Non mi riconosco più quando mi guardo allo specchio e quella faccia di fronte a me con quell’aria da coglione non mi appartiene proprio.

A luglio, Milano Massiccia, ombrellone, maglietta, libri, eritema e cappellino che poi mi brucio la pelata. Tra le pagine del Carlino occhieggio un gruppo di ventenni capelluti in un ombrellone vicino al mio e ho un raptus di invidia e nostalgia. Ma dove cazzo va la mia vita? Loro rispondono al mio sguardo rullandosi un cannone. Ma dove cazzo sono i carabinieri? Gioventù bruciata.

Ad agosto, laghetto e folaghe. Invece dei sassi tiro i bastoni.

A settembre smetto di farmi tosare la testa da Mrs.K. e preferisco i ciuffi.

A ottobre entro in terapia di supporto psicologico.

A novembre pian piano, qualche capello bianco prende vita e ancora più pian piano la mia testa assomiglia alla pelle di una mucca pezzata. Una bella pelle di vacca di quelle che andavano negli anni settanta. Chi non l’ha mai avuta? Festeggio il compleanno con una doppia dose di zoloft. Minchia, che culo… una botta di vita.

A gennaio, dopo le feste comandate, cambio guru e anche le medicine. I capelli ricrescono a placche, bianchi, grigi e neri. Li lascio fare, tanto non me ne frega più un cazzo.

***

Il tempo ha i suoi vantaggi, smorza le passioni, le pulsioni e le incazzature, si diventa filosofi. Gliela dò sù col pensarci, che facciano quel che vogliono, gli stronzi. Giorno dopo giorno la testa si rimodella fra discromie primarie, laghetti dolomitici, Fast City e videogiochi. Oggi se mi tocco la testa sento capelli dappertutto, anche se poi sono di colori diversi. Il parrucchiere di mia mamma ha pietà di me e non mi fa pagare dal 2007, la gente intorno a me non dà segni di stupore e mi consola come può ed io gradisco l’intenzione. Ogni tanto il mio cuginetto mi chiede se ho ancora “la malattia” intanto che sua mamma lo caccia a calci nel culo. Ma, povero cinno, che colpa ne ha lui se è l’unico sincero al mondo?

Comunque me ne son fatto una ragione e buonanotte. Sono così e così rimango, invischiato nell’improbabile al bar Metrò mangiando un sandwich del ’43, come canta Sergio Caputo. Non so se ho vinto o perso la guerra, ma sto meglio. Ovviamente si sta meglio da filosofi che da soldati, dopotutto e non mi va di passare per quei giapponesi che trent’anni dopo la guerra si nascondevano fra la jungla di pacifiche isole dove il tempo si era fermato.

Il tempo passa e tutto cambia, soprattutto noi.

Infatti mi è tornato l’eczema nel culo e l’ho accolto come un vecchio amico.

mercoledì 10 marzo 2010

Mrs. K. é mia moglie, l'unica, la sola, l'indivisibile, l'invisibile, la presente, quella di questa vita, quella di Giovanni Rana, quella bella, quella col naso, quella che quando ride si sente fino a Baricella e ritorna indietro.

Mrs. K. ed io siamo sposati da tanti anni quanti le dita di due mani e di un piede, con l'avanzo di un mignolino nel naso che gratta e gratta. Però siamo ancora due pianeti sconosciuti, lei penso che sia Venere io credo di esser Marte e così andrebbe bene, ma magari lei é Saturno con gli anelli e io non son Nettuno, anche se mi piacerebbe esser Qualcuno.

Mrs. K. é bella come un paesaggio di montagna, come una collina coperta di fieno, come un'improvvisazione jazz, come un Martini agitato non mescolato e senza oliva. E' bella soprattutto di notte, quando é girata dall'altra parte. E' bella soprattutto di giorno, al mattino, quando senza occhiali la confondo con una macchia d'oro sulla tappezzeria.

Mrs. K. é il mio unico e vero amore con la certificazione ISO 9000, che ho fatto tanti di quei documenti per sposarla che ancora al sol pensier mi trema il core, il portafoglio ed il buché. Anche la mano però, quando ci siam scambiati gli anelli. Il mio era piccolino, nettuniano, pieno di gas, il suo era gigantesco, saturnino, pieno di polvere di stelle, una ballerina al café chantant e sul viale del tramonto. Da quando si é messa con me non ha più ballato, anzi una volta sì ma io ero a lavorare.

Mrs. K. sembra tedesca invece é terrona, ma del nord. Ha un tono di voce forte che sembra la gigantessa di Geronimo Stilton, ma non puzza di formaggio, anzi. Sa un pò da osteria, specie nei capelli sembra un mazzo di carte usate, di carte usate da una cartomante che mi predisse che avrei trovato l'amore (sì!) su un isola mediterronea in mezzo al mare.

Mrs. K. l'ho conosciuta al mare, quando l'ho abbordata e le dissi baby vieni a bere con me? Lei andava a far sci nautico, mentre io galleggiavo come uno stronzo in secca. La guardavo da lontano e piano piano mi innamoravo, la chiamavo da lontano e piano piano mi innamoravo, la trombavo da lontano e piano piano mi innamoravo perso come una foglia gialla che svolazza via nel cielo cupo di novembre, verso il suo karma.

Mrs. K. é il mio vero Amore, quello con la A maiuscola, quello che quando lo trovi sei già perso, anche se non te la dà più. E' un pezzo di pane su una tovaglia, pronto per essere mangiato. Come un'ape nell'alveare, fra montagne di pappa reale e impollinazioni. Dopotutto l'ho conosciuta a Pollina, alla Valtur.

Mrs. K. é come il clarinetto di Lucio Dalla, é mitica. Io ci credo che diventeremo vecchi insieme tenendoci per mano all'ipercoop, spaventati dalla folla comperando i pannoloni col buono dell'assistenza sociale. Lei é più saggia di me, infatti ha già le rughe fra gli occhi anche se circospette, ma non la cambierei con due ventenni, anche se giovani. Mrs. K. é.

E tanto mi basta... kiss me bebi, tunait tu.
Jonni Smiths lo conosco da troppi anni che non bastano le dita delle mani e dei piedi neanche se tu fossi polidattilo o spaziale. Jonni Smiths adesso ha una pizzeria in più e parecchi capelli in meno, é ben messo, cortese, signorile nel parlare. Un misto tra Federico Moccia e Gastone Moschin.

All'inizio non mi stava simpatico ma neanche antipatico o convesso, sembrava uno specchio concavo, di quelli deformanti. Infatti lo guardavo e lo invidiavo, volevo essere come lui, un gentlemen, un viveur, un gagà. A me piaceva Sergio Caputo, lui credo lo odiasse, ma non me l'ha mai detto. Difatti é un Signore.

Suo zio era una specie di nostro capo al lavoro, un dirigente coi baffi, di quelli che girano qui e là, poi tornano indietro, poi ripartono, poi passano la notte in albergo, guardando la televisione o l'autostrada. Infatti lavoravamo negli autogrill, passandoci giornate su giornate, mattini, pomeriggi, sere, notti, piuttosto variopinte, specie quando passavano i tifosi del calcio. Io, mettendocela tutta, cercavo di imbonire quelle poche ragazze invasate, ricoperte dai colori sociali. Se ce la facevo mi facevo regalare una sciarpa o un berrettino, se non ce la facevo non tiravo su nulla e non mi facevo neppure la ragazza e capitava sempre così.

Jonni Smiths lavorava ad Aglio, io a Roncobilaccio. Uno di qua e uno di là dal valico.

Salivi al valico che c'era il sole e di là pioveva, salivi che pioveva e di là c'era il sole, salivi di notte e c'erano due puttane in un camper fra gli abeti, vicino ai cessi del parcheggio a ore. Di notte però era fantastico, c'erano milioni di stelle tra una galleria e l'altra. Miliardi di astri luminosi, gassosi, anabolizzati. C'era anche la stella del Brodo Star, gialla e verde come un pappagallo brasiliano. Ma senza culo.

Ora Jonni Smiths ha due gemelli, un maschio, una femmina e due avatar su Facebook. Jonni Smiths é un grande, per me lo é sempre stato. Difatti pesava almeno dodici chili più di me ed era anche alto un microfono in più. Io sono un metro e un microfono, lui due.

Però siamo sempre stati amici tanto che io l'ho chiamato come testimone di nozze, in chiesa, a firmare sull'altare ai piedi del Sacro Cuore in Piazza Donatori di Sangue, che é tutto un programma per un matrimonio per niente banale. Io a Jonni Smiths voglio bene e ho sempre cercato di essere come lui o meglio, infatti adesso peso quanto lui anche se mi manca sempre quel microfono in testa.

Ossequi Signor Smiths, a lei e Signora.
Se ora chiudo gli occhi, nonostante la luce riflessa sulla neve, vedo mia figlia. Se li apro, vedo sempre mia figlia, qui vicino a me. Nonostante che.

Nonostante che magari non sia un buon padre, nonostante che mi dimentichi di portarle gli stivali di gomma a scuola perché non si bagni i piedi, nonostante che i miei pensieri spesso volino via come farfalle impazzite in una bianca nuvola rosa. Nonostante che mi faccia desiderare, nonostante che delle volte mi giro e delle volte l'abbraccio, delle volte la bacio e delle volte la stringo così forte che lei mi guarda e mi dice "papà!". Nonostante che io sia via dalla mattina alla sera e che quando torno non torno tutto intero, nonostante che io sia a casa pur senza esserci, nonostante che non sfiori più neppure con un dito la sua mamma. Nonostante che la notte non passi sempre a vederla, accarezzandola, nonostante tutto l'amore del mondo mi distraggo, il mondo mi distrae, io delle volte mi perdo. E nonostante questo lei mi guarda.

E sorride.

E io mi sciolgo, mi sciolgo come la neve al sole, mi sciolgo come una goccia nel mare, come un petalo di rosa che vola pian piano verso una pozzanghera infangata. Mi sciolgo e sento calore calore colore colore. Il rosso dell'amore senza se e senza ma, il rosso della passione, il rosa della sua pelle, l'arancio di Winnie The Pooh. Divento una amalgama, come quella dei dentisti. Mi impatacco fra dente e dente e rimango lì, felice, fino a domani... nonostante tutto sono ancora il suo eroe... quanto sto male, sapesse che razza di padre, che uomo che sono, che stramba la vita come una vela.

E' bello stringerla, abbracciarla, guardarla sorridere, ridere, gridare, guardare i suoi anni che stanno nelle dita di due mani e che ne rimane un poco. E' bello giocare con lei, parlare, farsi il solletico, guardarsi, nascondersi e trovarsi e poi nascondersi e ritrovarsi di nuovo. L'Amore é una forza, una meraviglia della natura, un tocco di Dio in te, il Nirvana. L'Amore senza pegni, senza debiti, senza crediti, fine a sé. L'Amore per l'Amore, il padre per la figlia, la figlia per il padre e tutti e due insieme e poi separati e poi di nuovo insieme.

Tenerla fra le braccia mi pesa sempre meno, lei cresce ma cresco anch'io, lei si allunga e mi allungo anch'io, lei mangia e mangio anch'io. E un giorno si innamorerà. E io rimarrò il suo innamorato fedele papà paparone papuga come mi chiama. Rimarrò a guardare la sua vita che andrà via, lontano ma sempre vicina.

Per sempre. Felice.