Guglielmo Maria

Guglielmo Maria
Le Sette Sorelle

lunedì 15 marzo 2010

Anche questa, per fortuna, é una storia vera.

Se vi domandano come si riempie un buco nella pancia, potete rispondere che dipende da come si é creato, il buco nella pancia. Al mondo infatti c'é uomo e uomo e c'é donna e donna e c'é buco e buco e ognuno ha il suo buco, diverso dagli altri. Il mio, per esempio, sembra che non si possa riempire mai, perché non sta mai fermo, quindi pare impossibile metterci dentro qualcosa.

Mi sono accorto di avere un buco nella pancia appena appena adolescente, con i primi turbamenti ormonali, quando i miei pensieri, che nascono nel cuore, cercavano di volar via insieme a tutto l'entusiasmo del mondo ed erano puri e di fuoco e con la voglia di fare, di scoprire e di amare. Spesso, però, quando sembrava dovessero raggiungere le stelle per qualche motivo tornavano alla base, richiamati dalla forza di gravità sprigionata dal buco nella pancia, che é una delle forze più grandi e più tristi del mondo.

I pensieri allora tornavano indietro, ghiacciati, dolorosi, neri e si infilavano introversamente nel buco della pancia, dovunque esso fosse in quel momento, fosse vicino allo stomaco, fosse sul pancreas, fosse su di un neo, sopra una tetta o sotto l'ombelico. I pensieri tornavano a me, richiamati da quella forza potente, e, con un male che solo dopo avrei capito quanto forte, si schiacciavano contro il mio corpo e piano piano mi rivestivano, mi ricoprivano. Più il mio cuore si sforzava, anche senza sforzo apparente, di partorire pensieri di fuoco, pensieri caldi, pensieri d'amore più questi ritornavano indietro e mi si attaccavano intorno come una glassa di scadente cioccolato al minimo sindacale di cacao.

Glassa oggi, glassa domani, ormai mi sentivo un mottarello senza stecco, inutile, sterile, malinconico, di quelli che non riesci neppure a mangiarli con gusto perché ti sporchi tutte le mani. Sicuro che da fuori sembravo un bel cornetto, quello col posto per le mani, fatto apposta per essere gustato, essere accarezzato, essere scoperto poco a poco, morso a morso, con appassionata dolcezza. Da dentro, invece si vedeva che ero uno scarto di fabbrica, una terza scelta, un ghiacciolo monco, sciolto sotto il sole, al gusto di cerume.

Però a diciott'anni fai presto a raccontarti delle storie e fai presto anche a crederci, alle favole che ti racconti, come per un pubblico babbeo da un esperto narratore. La glassa non volevo vederla, ma c'era, non volevo toccarla, ma pesava, non volevo guardarla, ma essa brillava umidiccia nella sua marronitudine spenta di pensieri schiacciati da una pressione sette volte sette quella atmosferica, ma per me era come se non ci fosse. Me la portavo in giro quaranta giorni e quaranta notti usando tutta la forza che avevo, rimanendo in area di galleggiamento quasi senza ossigeno. Ma non volevo accorgermene e così tiravo avanti, anche se non me la tiravo. Io la lasciavo crescere, e lei cresceva.

La prima luna fu lunga e stressante, non più adolescente ma nemmeno uomo, anche se a me sembrava il contrario, perché mi dava fiducia. Ero tutto bozzolato dalla glassa del buco della pancia, cosa che mi impediva anche di stare al cesso in santa pace, però riuscivo ancora a confondermi bene, tutto sorrisi e gentilezze. Dentro però morivo poco a poco, la mancanza d'aria mi seccava i polmoni, li accartocciava e mi non mi faceva respirare, tranne proprio quando non ce la facevo più e allora mi sfogavo. Il cuore faceva il superlavoro, per fare uscire amore dalla larva che ero diventato, ma ormai confondevo l'amore con qualcos'altro e non mi seguivo più nemmeno da solo.

La seconda luna non é mai esistita nella realtà e forse per quello mi sentivo meglio. Me la ricordo davanti alla baracchina dei gelati mentre si aspettava il pulmino che ci portava a lavorare, io, lei e la glassa.

La terza luna fu corta e passionale, ma non ero io quello che stava accanto a lei, era il mio sims. Ero diventato un videogioco. Un videogioco ben fatto, certamente, ma sempre un videogioco. Un surrogato del mondo nel quale hai la pretesa di essere il tuo Dio, di poterti guidare e di poterti portare, ma avevo sempre il culo incollato alla sedia elettrica, collegato con gli elettrodi alla realtà virtuale, al mondo della frutta candita, alle scelte che qualcun'altro faceva per me, fosse il mio Dio (Dio mio!), la mia seconda o la prima ridotta, più probabilmente la retromarcia.

La quarta luna mi portò a quel paese e ne aveva tutte le ragioni del mondo. Aveva le ragioni sia del mondo reale che del mondo virtuale insieme, infatti non é male riuscire a fingere anche con se stessi, fingendo di fingere, fingendo di vivere. Vivere fingendo o fingere di vivere, ma cosa é meglio? Certo sarebbe meglio vivere per vivere ma, causa la glassa, ormai fingevo di fingere ed ogni sera mi accartocciavo piangente dentro al bozzolo, sotto la glassa ed il cerume aveva lasciato il posto alla blefarite e alle lacrime secche. Non avevo più sali né acqua, fingendo di aver vita.

La quinta luna mi diede la mano e io le allungai le bende della mummia. Spero non si sia mai accorta della carne putrida che sotto era il paradiso dei lombrichi. A me però pesava sempre di più e mi piegavo sotto il peso dei sensi di colpa, sotto il peso della glassa del buco nella pancia, ragionando in termini sequenziali sotto i pesi che ormai portavo ogni giorno con me. Non riuscivo più a vedere il sole, ne dimenticai persino l'esistenza ed ero diventato un disperato, erotico stomp.

La sesta luna voleva cavalcarmi a lungo, ma io resistetti perché non volevo altri pesi, altre storie tristi da raccontarmi, altre bugie alle quali credere. Forse (forse!) qualcosa cambiava in me, diventando più vecchio, come mi raccontavo io. La glassa si induriva, si seccava, lasciava passare il freddo, il ghiaccio, le notti insonni, ma anche il caldo, l'afa, la puzza di sudore ed il bruciore negli occhi dopo che le lacrime si erano di nuovo seccate tutte. La glassa puzzava di merda, ma con una bella spalmata di arrogance si riusciva a sopravvivere.

La settima luna era quella del luna park, per dirla alla Lucio Dalla. Peccato che fosse saltata la corrente e neppure i generatori fossero in funzione. Io mi bloccai in cima alla ruota panoramica, da dove potevo vedere tutto il mondo. Più che ad un uomo assomigliavo alla cimice di Men in Black, quella che cercava la cintura di Orione. Io più modestamente mi sarei accontentato di una cintura di sicurezza, per non cadere dall'ultimo piano, ma non riuscivo a vedere neanche quella, visto che non c'era la luna ed il mondo era fatto di moplen.

Alla fine l'ultima luna mi ha accettato per come sono, cullandomi nel sogno e riuscendo a farmi vedere il mondo a testa in giù. Come dice lei "non esiste un giorno così lungo per cui il sole non possa permettermi di tornare, pura e meravigliosa, ad accarezzarti gli occhi fino a farti dormire sereno con la mia carezza". Nella purezza della luna e della notte alla fine la glassa si é rotta ed io sono uscito dall'uovo.

Ed ora siete liberi di scrivere ciò che volete, sono diventato una lavagna e lì a destra ci sono i gessetti colorati e il cancellino.

Colorate, gente, colorate.

Un grazie speciale al Cavaliere Jedi, lui sa il perché... GM

1 commento:

Guglielmo Maria ha detto...
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