Guglielmo Maria

Guglielmo Maria
Le Sette Sorelle

giovedì 29 luglio 2010



Evidentemente il blog, il mio blog, é un animale notturno. Mi chiama quando, come ora, non riesco a dormire e lo fa con una voce insidiosa e così suadente che anche quella parte ragionevole del cervello che ti dice "rimani a letto, prova a dormire, riposati che domani vai al lavoro" si deve arrendere alle lusinghe dei pensieri in libertà.

I pensieri (notturni) in libertà sono degli assassini. Si fanno strada fra le coltri e ti si piantano in testa come paletti nel cuore di Dracula. Tu hai un bel da girarti e rigirarti, voltarti e rivoltarti, stringerti al cuscino afferrandolo come se fosse la tua ancora di salvezza per resistere in un mare di seducenti sensazioni tattili, visive ed odorose come solo i sogni potrebbero essere, se si sognasse. I pensieri (notturni) in libertà sono peggio di uno sfigato che ti viene incontro su di una strada buia con gli abbaglianti accesi, luci tanto luminose che la notte sembra ancor più densa, ancor più nera, come un enorme sacchetto di liquirizia alla violetta.

Allora, vinto dal richiamo della foresta, capisci che l'unica cosa da fare é scendere dal letto, cercare a tentoni braghette, maglietta e un paio di qualcosa da infilarci i piedi, il tutto in assoluto silenzio per non svegliare Mrs. K. o la piccola fragola e, navigando a fianco dei muri, raggiungere la postazione di sud-est, accendere il pc, infilarsi le cuffiette, metter su Miles Davis, aprire il blog e scrivere. Non puoi fare altro. Meglio una notte da scrittori che cento notti da insonni.

***

Prima, accucciato nel letto, pensavo a come diventerebbe il mondo se una mattina, tutti insieme, decidessimo di uscire di casa senza metterci la nostra solita armatura, evitando di sfoderare il nostro più falso sorriso Colgate. Cioé, se non si é capito, uscire nudi, per niente vestiti. Lasciando a casa le maschere ed i travestimenti, lasciando a casa quella parte di noi che ci siamo costruiti perché gli altri ci vedano in una certa maniera, lasciando a casa tutto ciò che, in fondo, é nostro solo perché ce lo vogliamo tenere addosso ma che, ancora più in fondo, non fa parte di noi. Lasciando a casa le armi di offesa e di difesa. Tutti nudi.

Sarebbe un bel gesto di coraggio, uscire di casa come mamma ti ha fatto, fisicamente e psicologicamente. Lasciare a casa anche tutti i pregiudizi, quelli che ti impediscono di vedere le cose come stanno, gli altri come sono. A pensarci bene é un  bel casino, anche affascinante, nella sua complessa complessità. Provo a spiegarmi meglio, me lo devo, se no mi ci perdo pure io.

Facciamo finta di essere in due sulla terra, io e te che stai leggendo. Alla mattina ci svegliamo, espletiamo i nostri bisogni fisiologici, facciamo colazione e ci prepariamo per la giornata infilandoci nella nostra benedetta armatura. Siamo deboli, si sa, quindi meglio affrontare il mondo corazzati, come un cavaliere medioevale od un agente dalla SWAT. L'armatura é cangiante, elegante, di solito non si vede, qualche volta si capisce, molto spesso si subisce. Comunque sia, ce la mettiamo ed usciamo di casa.

Insieme ai carboidrati a colazione abbiamo fatto il pieno quotidiano di pregiudizi, ripassando mentalmente le tabelline dei rapporti interpersonali, le equazioni della vita sociale e gli algoritmi sugli incontri casuali. Magari i risultati sono diversi ogni giorno, ma quando usciamo di casa abbiamo le nostre idee precotte, su di noi, sugli altri, sulla vita in generale e su quello che vogliamo fare in particolare. Ci siamo, siamo pronti, andiamo alla guerra, abbiamo anche le lenti a contatto per vedere solo ciò che ci pare.

Ricorda, siamo in due. Riepiloghiamo. Ognuno di noi era nudo, in origine. Ci siamo alzati dal letto e subito ci siamo nascosti dentro una scintillante armatura, abbiamo fatto il pieno di pregiudizi e ci siamo messi le lenti selettive, quelle che ci fanno vedere le cose come vogliamo noi. Ok? Tutto chiaro? Spero di sì.

Poi ci incontriamo, buongiorno, buonasera, vaffanculo, sia come sia. Io vedo te, tu ovviamente vedi me. Io vedo te come voglio vederti, tu vedi me come vuoi vedermi. Abbiamo le lenti selettive, no? Quindi, tanto per iniziare nessuno vede una cosa vera. La sfiga é, che se volessimo indagare più a fondo, colti da un'anelito di verità e di sincera curiosità, andremmo a sbattere contro l'armatura che l'altro porta. Quindi, in ogni caso, avremmo una visione distorta della verità. Nel primo caso vediamo l'altro come vogliamo noi, nel secondo lo vediamo come si vuol fare vedere lui. In nessuno dei due casi lo vediamo per come é, persi in una spirale di segnali stradali di senso unico.

Forse nessuno lo sa, come la vita é per davvero. Come siamo noi, per davvero. Come sono gli altri, per davvero. Come potremmo essere, per davvero. Come vorremmo essere, per davvero. Forse nessuno lo sa. Per questo sarebbe eccezionale, una mattina uscire nudi per strada. Nudi. Nudi nati, come dicono a Fast City. Nudi e basta. Niente vestiti, niente idee, solo la voglia di vedere il mondo e di scoprire gli altri.

Sembrerebbe dura... Io dovrei mettere a nudo il mio pisello, la mia burella, il mio io con tutti i suoi difettacci. Tu dovresti mettere a nudo la tua passera, la cellulite ed il tuo io con tutti i tuoi difettacci. Lui dovrebbe mettere a nudo le sue vere tendenze sessuali, lei far sapere che ha sempre sopportato questo e quello. E così via, per ognuno di noi che sta al mondo.

Ma, mi chiedo, sarebbe dura "veramente"? Sarebbe dura mostrarsi difettosi in un mondo nel quale tutti sono pieni di difetti? No, non credo, sarebbe una cosa assolutamente normale, non farebbe per niente scalpore. In realtà é già così, il mondo é pieno di persone "difettose" ma ci vogliamo ingannare fingendo di essere perfetti. C'é una stringente logica sadomaso che sottende i nostri comportamenti. Se fossimo più liberi dai condizionamenti, sgraveremmo il cervello da uno squasso di pugnette che ci portano via un sacco di energie e saremmo più pronti a vivere l'attimo. A cogliere l'attimo, a cogliere l'altro. Ad accogliere l'altro.

Io non credo che sarebbe dura. Io sono convinto che sarebbe molto meno faticoso. Certo, chi é molto pieno di se stesso, dovrebbe impegnarsi un pò di più, ma sarebbe anche molto più ricompensato. Niente é regalato, ma se una mattina tutti, e dico tutti, uscissimo di casa nudi, lasciando negli armadi gli scheletri delle armature del come voglio sembrare, lasciando nei cassetti le lenti a contatto dei pregiudizi ed i tacconi che abbiamo lasciato crescere sui nostri io, beh... sarebbe bello.

No, sarebbe meraviglioso. Tutti nudi, nudi, nudi! Tutti uguali in braccio a mamma!

***

note per la comprensione:
burella - termine affettuoso per definire la pancetta, la buzza, lo stomaco prominente.
squasso di pugnette - mucchio di pippe, di seghe (mentali) in misura industriale.
taccone - crosta spessa e coriacea, cricca, sporco

mercoledì 14 luglio 2010

Ho conosciuto Dart Maul, il diavolo.

Con i suoi occhi chiari ed il suo sorriso, é colui che uccide poco a poco chi lo ama disperatamente.

E' colui che usa, colui che fa soffrire. Colui che taglia le ali agli angeli.
Colui che prende e poi butta via, quando non gli servi più.
Colui che si nutre di polvere e nella polvere ritornerà.

Avrei voluto sputargli in faccia tutto il mio disprezzo. E sarebbe stato troppo poco. Ma non era il momento giusto, non avrebbe capito. Invece io voglio che capisca. Che capisca cosa significa uccidere l'amore che gli viene regalato senza chieder niente in cambio.

Lo farò, anche se conosco sua madre e le darò un dolore che non capirà. Ma non importa, non voglio più vedere il mio angelo piangere. Non voglio più vedere un fiore sulla corsia di sorpasso. Voglio che la maionese torni ad aver sapore, voglio che il mio angelo non prenda più sonniferi. Voglio che il mio angelo si addormenti come si addormentano i bambini. Sereni.

Voglio che i principi siano solo quelli delle favole.

Voglio che le lacrime siano solo di gioia.


Stasera é una sera bellissima, non c'é una nuvola in cielo. L'aria é calda, calma e azzurra come il fiocco che avevo alle elementari sul grembiulino nero. Tutto sembra in pace. Guardo dalla terrazza e vedo alberi, verdi e immensi, case rosse e marroni, rondini nere che volano e luci che si accendono nell'imbrunire. Quando arriverà il buio, quello vero, allora spunteranno le stelle. Le prime, le più sfrontate, le più belle, si mettono già in mostra. Presto saranno seguite da milioni di altre, più piccole e più timide, ma non meno affascinanti.

La bellezza fa da corollario ad una settimana di merda.

Venerdì G. si é impiccato, tagliandosi le ali. Ha dato un calcio alla sua vita, alle sue passioni, al suo mare, a sua figlia, a tutto. Ha lasciato dietro di sè un corpo appeso ad una corda, con i piedi che sfioravano terra.

Quando l'ho saputo é stato come ricevere un pugno nello stomaco, uno di quelli che non ti lascia respirare.

Di certo l'aveva pensata prima, ma non l'aveva detto a nessuno o nessuno l'aveva capito. Chissà, a modo suo forse aveva lanciato grida di aiuto che nessuno ha sentito e che sono ritornate al mittente, come degli schiaffi.

Una settimana prima aveva compiuto gli anni, ma siamo stati in tanti a non ricordarci di lui. E ora non abbiamo più la possibilità di farglieli, quegli auguri. Possiamo piangere una preghiera disperata verso un Dio tremendo che gli ha lasciato la libertà di andarsene, lanciando un grido doloroso che non avrà più risposta. Chi l'ha visto nella cassa, prima che la chiudessero, mi ha detto che sembrava corrucciato. Lui che sapeva ridere, e ridere forte, si porterà dietro per l'eternità il dolore dipinto sul viso. Ora c'é solo da sperare che abbia trovato la pace che cercava, finalmente.

Da ieri é in un tombino, cementato di fresco, al primo piano del cimitero nuovo. Da lì, ancora per un poco, si vede la campagna, sino a che non finiranno la nuova ala. Dopo, credo che si riuscirà a vedere solo un pezzo di cielo. Quel cielo che sembra un grande mare, quel mare che lui amava tanto.

Ho aspettato che andassero via tutti, per andare a trovarlo. Sono rimasto lì solo, bagnato di lacrime e sudore, sotto il sole di luglio. Avrei voluto rimproverargli di non averci avvisato, ma non ci sono riuscito. Mi é rimasto solo il pianto e tanto dolore per non aver capito che stava morendo a poco a poco nella nostra indifferenza. Non posso neppure scusarmi, ormai. Non posso fare nulla.

Restano solo diciotto anni di ricordi, di tutti i colori, che prima o poi svaniranno fra le pieghe della memoria, dispersi nel vuoto del tempo che passa. 

Addio G. Se puoi perdona chi non ti ha saputo capire.

sabato 8 maggio 2010


Conoscete il "Disco di Nebra"? E' la più antica rappresentazione del cielo e dei fenomeni atmosferici che sia giunta fino a noi e contiene il sole, la luna, l'alba, il tramonto, le stelle e l'ammasso stellare delle Pleiadi, le sette sorelle che ho scelto come immagine principale per il blog di Guglielmo Maria. Gli archeologi stimano che sia stato manufatto fra il 1700 ed il 2100 avanti Cristo e poi sotterrato verso il 1600 avanti Cristo, vicino alla cittadina di Nebra, nell'attuale Germania. Potrebbe avere quindi più o meno quattromila anni, ma li porta benissimo e se fosse un vecchietto sarebbe uno di quelli arzilli arzilli che gli tira ancora l'ocarina quando vedono passare una signorina in minigonna in queste belle giornate primaverili.

Mi fa sempre effetto pensare che abbia così tanti anni. E' stato costruito da un'antico essere umano... sciamano, sacerdote, poeta, sognatore, astrologo, cacciatore, contadino o chissà cosa... che passava la notte a guardare e a studiare il cielo. Io non voglio dare per scontato che sia stato un maschio, anche se uso le declinazioni al maschile, per conto mio potrebbe essere anche stata una donna, soprattutto perché le donne hanno il potere di prendere i sogni e farli diventare realtà, anche se magari non se ne rendono conto e alcune non usano mai questo dono che Dio le ha dato.

Quattromila anni fa il cielo era già come lo vediamo ora, praticamente. L'unica differenza é che si vedeva bene dappertutto, perché non c'era l'inquinamento luminoso come ora che se vuoi vedere lo splendore del cielo te ne devi andare in mezzo al deserto. Quattromila anni sono uno sputo nella storia dell'universo, un attimo, un istante, un sospiro, forse anche meno. Per un uomo invece sono un tempo impossibile da comprendere razionalmente perché ben che vada potremmo viverne consapevolmente un cinquantesimo o poco più, prima che abbiano il sopravvento i pannoloni, le malattie della vecchiaia, le badanti ed evaporino i ricordi di tutta una vita insieme alle amicizie che se ne vanno una dopo l'altra.

Chissà perché l'uomo di quattromila anni fa si fermava a studiare il cielo, cercava di capirlo e poi provava a disegnarlo su di un disco in metallo usando dell'oro per fare il sole, la luna e le stelle, l'alba ed il tramonto e la barca solare. Chissà? Forse non era solo per amore dell'arte e dell'artigianato, anzi, sicuramente non lo sarà stato. Molto più probabilmente con quel disco cercava di dare una risposta alle prime domande impossibili che gli sarà capitato di farsi, anche quattromila anni fa. Chi sono? Da dove vengo? Dove vado? Mah, qui si va sul difficile, sul filosofico, sul religioso, sull'incasinato. Meglio, come si dice ora, by-passare ed andare oltre. Oltre all'ostacolo.

Oltre l'ostacolo ci sono le stelle, che in questo caso sono le Sette Sorelle, le Pleiadi. Di loro, quando ci va grassa, dalle nostre parti riusciamo a vederne cinque, sei o sette. Se fossimo nel mezzo del Sahara, in una notte buia e senza luna, potremmo vederne una dozzina. Invece sono un centinaio. Sono giovani, hanno solo cento milioni di anni e moriranno presto, fra solo duecentocinquanta milioni di anni, più o meno. Per l'universo sono signorine, ma destinate ad una breve vita. Secondo me sono lassù che cercano di spassarsela, per questo mi sono piaciute per il blog di Guglielmo Maria. Sono un pò quello che manca a me. Un ammasso di voglia di vivere, di piacere di godersela, di desiderio di non mettersene troppa. Le hanno raffigurate come donne, come danzatrici, come nubili, come mamme, come galline coi pulcini. Effettivamente c'é tanto di femminile nelle Pleiadi.

Mi piace che siano le mie stelle. Non é da tutti avere sette stelle fighe, che danzano nel cielo. Ovviamente si spostano, girano intorno alla Stella polare, ma si sa che se le cerchi nel cielo le riconosci alla svelta, ti sorridono sempre e ti chiedono di danzare con loro. Diceva Friedrich Nietzsche che "bisogna avere ancora un caos dentro di sé per partorire una stella danzante". Averne sette, quindi non é da tutti. E' un gran casino tenerci dietro, é vero. Però, c'é gusto... la "stella danzante" é la completezza che nasce dal caos, il caos che ci dona infinite possibilità di variazioni, di cambiamenti. Guardando la vita passata, quanti sono stati i momenti di caos, le infinite combinazioni che ci hanno permesso di partorire una stella danzante?

Penso a mia figlia. E' in cucina che fa i compiti, sta recuperando due tre giorni di assenza da scuola per alcune caghette assortite. Ha bisogno del papà, ogni tanto mi viene a cercare, ogni tanto la cerco io. L'altro giorno ce ne siamo andati in giro per Gran Burrone, io e lei, mano nella mano. Un caffettino, poi in libreria, poi dal giornalaio e poi a casa. E lei con me, a giocare a quanti passi ci vogliono per attraversare tutto il portico, a guardare le vetrine della profumeria con i beauty case di Hello Kitty ed i profumi delle Winx. A spulciare fra gli scaffali della libreria i libretti di Geronimo Stilton e gli Harry Potter. Intanto io mi sono rilassato, mi sono divertito, mi sono piaciuto in quell'oretta con la mia stupenda stella danzante.

Se penso che é nata dal caos, da una irripetibile coincidenza di fattori che in quel momento stavano lì, tutti nell'ordine giusto. Un minuto prima o un minuto dopo e non sarebbe stata lei. Magari dipende anche da cosa avevamo mangiato, da come avevamo passato la giornata, la serata. Dalla voglia di fare all'amore. O da chissà che cosa. Però, in quel momento lì, un mio spermino fra milioni di spermini arriva all'ovetto, bussa e gli viene aperto. E poi nasce la vita, si sviluppa e diventa mia figlia. Proprio lei. Una stella danzante. Una delle mie stelle danzanti. Una tenera stella danzante che, un paio di volte alla settimana si accoccola vicino al papà e si addormenta, lasciandosi cullare al ritmo del battito del cuore. E quando cambia il respiro e diventa regolare io capisco che se ne é andata nel mondo dei sogni, tenendo la mano al suo papà, il caos.

Ogni giorno possiamo creare una stella danzante, una delle Sette Sorelle, una delle Pleiadi. Magari non ce ne accorgiamo, ma basta un gesto, un attimo, un sorriso, un pensiero, una preghiera, una lacrima, una supplica, un bacio. Il caos ha bisogno d'amore per trasformarsi in completezza. L'amore dell'uomo di quattromila anni fa che ha messo delle lamine d'oro su di un disco metallico, l'amore dell'uomo di oggi che, fra milioni e milioni di cambiamenti, di possibilità, di incognite, sceglie di fare qualcosa. Qualsiasi cosa, anche chiudersi in casa a piangersi addosso per settimane, finché arriva il momento che si crea una stella danzante, anche se non ce ne si accorge subito e magari la si confonde col caso, che si scrive con le stesse lettere, ma non é proprio la stessa cosa.

Infatti, niente é per caso, ma tutto é per caos. Ricordiamocelo. Teniamolo presente...

Ognuno di noi é una stella nata dal caos, cresciuta nel caos e bellissima come l'Amore.

domenica 25 aprile 2010



Oggi é il venticinque aprile. E' una giornata importante e ancora molto sentita, però visto che quest'anno casca di domenica e non siamo in campagna elettorale ce ne si accorge un po' meno e poi la gente é dispiaciuta e un pò scocciata perché non c'é il ponte e tocca lavorare tutti i giorni. Sono tantissimi anni che siamo stati liberati, moltissimi anni. Io non c'ero ancora e gli atomi che ora mi compongono chissà dov'erano allora? Erano atomi da guerra, forse, oppure atomi da libertà? Oppure, semplicemente, atomi e basta, solo piccoli pezzetti di materia. Più probabile quest'ultima, come ipotesi, perché gli atomi, checché se ne dica, non sono né bene né male ma sono. Poi dipende da come si usano, ma questo é un'altro discorso.

Siccome oggi é la festa della Liberazione ed io ho deciso di vivere alla giornata ho deciso di fare un elenchino delle cose dalle quali mi piacerebbe essere liberato. Quindi, per prima cosa, ci vuole una premessa fondamentale ai fini del ragionamento e cioé chiedersi se "essere liberato" o "liberarsi da solo"? Questa é una bella domanda, da farsi, ad esempio se vogliamo un po' di consapevolezza sulla questione, quando stai spingendo e ti vengono le vene del collo grosse come calippi seduto tutto compresso sulla tazzona del cesso. In questo caso sei tu che ti liberi oppure é lei, la cacca, che ti libera andandosene giù per il tubo? Ci sarebbe da pensarci su, da fare qualche elucubrazione, qualche volo intellettuale alla Topo Gigio. Ma cosa dici mai? Che filosofia di merda.

Comunque, meglio tenersi strette entrambe le opzioni, perché, come dicevano i nostri antenati "melius abundare quam deficere" e, poi, "aiutati che Dio ti aiuta". Non scartiamo perciò nessuna provvidenza, sia che arrivi da noi, sia che venga dagli altri, sia che scenda da Dio, sia che siano i Confetti Falqui. Non si sa mai, una mano aiuta l'altra, é come per le tessere del domino che, sono in piedi una affianco all'altra per milioni e milioni di chilometri e basta che tu dia un colpo alla prima, spingendola nella giusta direzione, che poi, una dopo l'altra, si ribaltano tutte, per tutti i milioni e milioni di chilometri, da qui alla felicità. Allora, mi vien da dire, se le cose da cui vogliamo esser liberati sono lì come le tessere del domino e diventano un muro che ci circonda, quello che importa é il primo colpo, dato nella giusta direzione. Il primo punto é che la verità sta nel mezzo, "in medio stat virtus", anche se il primo colpo lo devi dare tu.

Sei tu, cioé, sono io, che devo decidere di dare il primo colpo alle tessere del domino che mi circondano. Nessuno lo potrà fare se non tu, cioé io. Il problema vero è che non sappiamo quanto lungo sia, questo muro costruito con le tessere del domino. Quattro metri, che ci gira intorno e basta? Quaranta metri, che ci gira intorno, ma fitto fitto. Quaranta chilometri, quaranta milioni di chilometri, quaranta infiniti? Non lo sappiamo, se lo sapessimo l'avremmo già superato, con un  salto. Anche se ci mettiamo lì a contarle, le tessere del domino, non riusciamo proprio. Perché loro sono grandi come il muro di Berlino e noi siamo piccolini come formichine, siamo formichine. Non avendo idea di quante siano, queste benedette tessere del domino, i modi per affrontare la questione si riducono a tre.

Il primo modo é concentrarsi su noi stessi finché, miracolo, non ci spuntano le ali, sperando nell'aiuto di qualche santo. Quando e se ci saranno spuntate le ali, ci potremo alzare in volo e, a meno che il muro non sia veramente ma veramente alto, forse potremo arrivare in cima e vedere quanto é grande il muro, quanto ci circonda e che cosa c'è intorno. Posto che abbiamo gli occhi per guardare e la voglia di farlo. Potremo anche scoprire che non riusciamo a vederne la fine. In questo caso, torneremo giù ad abbandonarci ai più cupi pensieri o proveremo a volare, volare, volare, verso qualche parte ignota del mondo? E se il mondo ignoto ci fa paura? Torniamo giù, ripieghiamo le ali, tanto non ce la faremo mai, e ci costruiamo un riparo sicuro circondati dalle nostre tessere del domino. Così rimaniamo noi, con le nostre alette, che non vogliamo usare e con la nostra paura di ciò che ci circonda. Circondati dalle tessere del domino.

Il secondo modo é dare una spallata alla prima tessera del domino, quella più vicina a noi. Anche una spallata con la forza di una formichina può abbattere la tessera del domino più grande del mondo, basta volerlo fare. E poi sedersi a guardare le tessere del domino che una dopo l'altra, una colpita dall'altra si ribaltano e cadono. E noi seduti a guardare questo spettacolo affascinante che ci allarga l'orizzonte. E noi seduti a guardare l'orologio e a pensare, dopo un ora, ma quante cazzo sono queste tessere del domino. E noi seduti a guardare e a romperci un po' le balle, perché continuano a cadere tessere da tutte le parti e non finiscono più. E noi seduti a guardare con un poco di rassegnazione, dopo una settimana che cadono tessere del domino, che sono talmente enormi che ci mettono molto tempo. E noi seduti a guardare tutte le tessere cadute e il paesaggio che non cambia mai, tante sono le tessere da buttar giù e noi che pensiamo si stava meglio quando si stava peggio almeno avevamo dei punti di riferimento, con il mio muro e non questa landa desolata di tessere del domino cadute rovinosamente e che non finiscono mai. E noi seduti a guardare, anche se non vediamo più nulla perché é scesa di nuovo la sera e abbiamo gli occhi pieni di pianto perché ci aspettavamo che non fossero così tante e così immense e così lente a cascar giù. Così rimaniamo noi e le nostre aspettative insoddisfatte a farci compagnia. Nelle rovine.

Il terzo modo inizia quando smettiamo di farci crescere le ali e smettiamo di pensare che in due giorni riusciamo a ribaltare tutte le tessere del domino del mondo e ci diamo qualche obiettivo, facciamo la nostra lista della spesa delle cose dalle quali vogliamo liberarci o essere liberati in questo venticinque aprile. Cioé oggi, ora, adesso, in questo preciso istante. Che magari potrebbe anche essere il sette ottobre o il quattro febbraio o il ventiquattro giugno, ma il giorno non conta. Non conta che sia "questa" giornata, conta che le nostre giornate le viviamo come le giornate della Libertà, una dopo l'altra. La Libertà dalle barriere, la Libertà dalle aspettative, la Libertà dai muri che ci costruiamo, dalle tessere del domino che sistemiamo perché siamo delle piccole Penelopi. Di giorno costruiamo i muri che ci circondano e scolpiamo le tessere del domino nel legno più duro della terra e di notte sognamo di buttarle giù e ci svegliamo con qualche tessera in meno che prontamente provvediamo a sostituire, senza perder tempo. Lasciamo spazio ai sogni, anche nelle veglie di tutti i giorni.

E le cose da cui voglio liberarmi o essere liberato? E' tutto? E' niente? Dov'é il block notes, che me le scrivo?

Non lo trovo, devo ricordarmele a mente. Vorrei, vorrei, no, voglio liberarmi di... no, in realtà, questo no. Allora é meglio iniziare da quando mi comporto così... ma, invece non sarebbe meglio cominciare con... ma, poi mi aiuta veramente, non sarebbe più utile pensare che sia più utile fare in questo modo e metter ordine, ma se prima non tolgo questa parte di me stesso, questo modo di pensare non riuscirò proprio a fare così e... credo sia più opportuno mettersi lì, sulla cima di una montagna a pensare... ma cosa voglio dalla vita e cosa posso dare e... accidenti, quella cosa mi serve, allora, meno male che non l'ho buttata via, non me ne sono liberato. Però, Gesù mio, a qualcosa devo pensare dopo che ho scritto tutto questo tempo, non vorrò mica averlo buttato via, tutti questi discorsi, questi pensieri, questo guardarsi dentro e fuori...

Beh, se devo dirne una, vorrei cagare senza sforzo. Punto.

giovedì 22 aprile 2010

Sto morendo dentro. Ogni giorno un poco, divorato da questo male buio e difficile che si chiama depressione. Il mio medico di famiglia mi dice che la mia é una depressione endogena, una depressione, cioé, che viene dall'interno di me stesso e non é scatenata da fattori esterni, tipo un lutto, la perdita del lavoro o cose così, cose gravi che ti colpiscono da fuori. E' qualcosa che porto dentro di me, che in me vive, che in me si alimenta e che ogni tanto, a tradimento, mi colpisce e mi lascia a terra stramazzante. E' una sorta di lato oscuro del mio essere uomo, adulto, bambino che di tanto in tanto si rifà vivo, facendomi chiudere le porte che mi collegano al mondo.

E' una cosa difficile da spiegare, ma ancora più difficile da capire se non la si é, in qualche maniera vissuta. La depressione, almeno una come la mia, vista da fuori, vista dagli altri, sembra inspiegabile. Lo dico per esperienza, perché io stesso non riuscivo a capire come mai in persone nel fiore degli anni, trenta, quaranta, cinquanta, sessanta, senza problemi apparenti, si era spenta la voglia di vivere davanti ai miei occhi, così, senza ragioni visibili. Quando mi é successo di vedere da fuori queste cose, voglio dire quando é successo a me di esserne spettatore, non avendo capito una beata minchia di cosa stava succedendo, ho avuto nei confronti di queste persone un'atteggiamento che mi portava a pensare che fossero dei falliti, dei derelitti. Ho fatto quindi due cose, principalmente: gli ho giudicati e mi sono giudicato, dicendomi che a me cose del genere non sarebbero mai capitate. E questi sono due grandi sbagli. Dagli sbagli si deve e si può imparare, ovviamente, ma bisogna avere l'umiltà per farlo. E farlo subito o almeno prima possibile.

Fra i primi errori che ho commesso uno é stato quello di credermi immune. Io, nonostante una autostima molto bassa che avevo di me stesso, mi sono sempre pensato invece come un essere avvolto da una sorta di magica armatura che non avrebbe permesso alle malattie del mondo di farsi strada dentro di me. Quando parlo di primi errori non ne faccio una scaletta temporale, non vuol dire che siano sbagli commessi molti anni fa o all'inizio della mia vita, ma significa semplicemente che sono i primi in ordine di importanza, almeno secondo una mia personale classificazione. Il fatto di credermi immune, di credermi superiore a certe cose, in qualche modo non mi ha permesso di costruirmi delle difese, di prepararmi a ciò che sarebbe successo, ma mi ha lasciato nudo ad affrontare un esercito di fantasmi armati di tutto punto. Se trovavo, ad esempio, in un giornale, in una rivista, in televisione, un articolo o una trasmissione che parlava della depressione la saltavo a pié pari perché non faceva parte della mia vita e non me ne interessava, giudicando che non fosse importante.

Giudicare gli altri fa parte della stessa famiglia di cazzate, visto che il metro di paragone siamo sempre noi stessi. Se io giudico un'altra persona, ovviamente non posso prescindere da me stesso. E' come guardare due foto, una mia e una dell'altro o altra che sia. Confronti i vestiti, i sorrisi, il modo di porsi, lo sguardo, i capelli, le scarpe, la macchina e via pian piano tutto quello che é differente e visibile agli occhi. Il giudizio nasce partendo da impressioni, da cose leggere, di superficie, dalle prime cose visibili. Giudicando perdi la voglia e la forza di scavare dentro le altre persone, perdi l'abitudine a cercare di comprendere veramente come sono e ti limiti al come sembrano. Il guaio é che, contemporaneamente, fai esattamente lo stesso con te stesso. Ti limiti quindi alla superficie e perdi o non trovi mai la forza per andare a capire cosa c'é sotto al visibile. Laggiù dove sei nudo, dove sei te stesso e basta. E così perdendo di vista gli altri perdi di vista anche te stesso e questo é un'altro grande sbaglio.

Arriva, credo per tutti, un momento a partire dal quale la nostra vita inizia a correre velocemente e facciamo sempre più fatica a tenerla sotto controllo. A me é capitato così, ma penso che sia abbastanza comune. E' stato quando ho iniziato a lavorare, ad uscire di casa, a vivere in un'altra città, ad avere una donna con la quale condividere un progetto di vita, avere una figlia, diventare adulto. La velleità di tenere tutto sotto controllo senza avere una linea guida, una coerenza, chiamiamola così. Ha poca importanza che questo sia successo a venticinque, trentacinque o quarantacinque anni. Ma arriva un momento nel quale inizi, piano piano, quasi senza accorgertene, poi a riannodare tutti quei fili dispersi di cui é composta la tua vita e ti rendi conto, almeno nel mio caso é successo così, che concretamente molti di quei fili che credevi di tenere saldamente fra le mani, le redini della mia vita, in realtà se ne andavano per i cavoli loro. Dove volevano. Ed io con loro, naturalmente. Io andavo accorgendomi di non andare dove volevo ma dove la vita, intesa come tutto ciò che ti sta intorno, mi portava.

Ad un certo punto mi sono reso conto, quindi che la vita mi aveva portato dove voleva lei e non dove volessi andare veramente io. Quasi mai puoi tornare indietro, il tempo é passato, le cose sono successe e non si ripresentano più occasioni di poterle rifare diversamente. Allora inizi a fare il conto dei bivi attraverso i quali sei passato e ripercorri le scelte fatte e ti accorgi che, molto spesso, le scelte fatte sono state delle non-scelte, i mali minori, le convenienze del momento e molte di quelle cazzate lì. Nel mio caso questo é stato per me destabilizzante perché mi sono scoperto nella realtà non dove sarei voluto essere, non come sarei voluto essere, perché, forse, avrei voluto essere diverso. E un primo pensiero negativo ti fa strada nella testa, iniziando un percorso che va ad attraversare i momenti di disagio che avevo provato negli anni precedenti, le scontentezze, i dubbi, le indecisioni e tutto quel genere di cose a cui non avevo fatto molto caso, ma che adesso iniziavano a rimbombare come in una cassa di risonanza.

E poi ti rendi conto, quale orrore, di non conoscerti come veramente sei e questo ti mette addosso una inquietudine bestiale. Almeno a me, credo sia successo così. Ti guardi allo specchio una mattina e ti vedi come se tu non ti fossi visto da tanti anni. Ti vedi diverso. Ti spaventi, non ti riconosci. E ti chiedi se sei tu, quella persona che vedi riflessa nello specchio. E capisci che, se non riconosci l'apparente, chissà come mai ti potrà apparire ciò che non si vede, la tua vera anima, il tuo vero io, la tua essenza. Allora, fondamentalmente, hai due strade da percorrere. Una difficile, in salita, fatta di elementi da capire, di cose di cui prendersi carico, di momenti da analizzare, di comportamenti per i quali darsi quanto meno una ragione e collocarli dentro uno schema, che sei tu stesso, che va ricostruito o quanto meno razionalizzato, per poi alla fine essere in qualche modo accettato, condiviso. La seconda, più facile, é quella di spazzare tutti i pensieri sotto al tappeto, nasconderli ed andare avanti come se nulla fosse, allontanandoti ancora di più da te stesso e da chi ti sta vicini giorno dopo giorno. Un bivio, ancora una volta.

In realtà ve ne sarebbe una terza di strada, ma di questa te ne rendi conto dopo, dopo che hai percorso le prime due. Nell'ordine io le ho percorse tutte due, le strade che portano in nessun posto o nel posto sbagliato. Per prima cosa ho messo tonnellate di polvere sotto al tappeto, milioni di pensieri dentro i cassetti, dietro le porte, persino nell'anima dei rotoli di carta igienica. Ho nascosto tutto ciò che non mi piaceva, ho fatto finta che non esistesse nulla al di là di ciò che volevo credere di volere. Continuare a vivere come se niente fosse, se la malinconia non esistesse, andando al di sopra delle righe. Ci sono molti modi per andare al di sopra delle righe, ognuno ha i suoi e credo che non sia importante farne una classificazione, perché ognuno di noi ha le sue strategie per mentirsi e per tradirsi. Chiaramente questa strada ti porta nel posto sbagliato, i pensieri negativi che si insinuano nella nostra mente continuano ad insediarsi e a prendere spazio. Piano piano, fino a che non crolli e non hai più spazio, dentro di te, dove nascondere ciò che non vuoi. E nel frattempo, comunque, non sei te stesso, neppure con te stesso.

Allora prendi la seconda strada, quella della razionalizzazione, della catalogazione, quella del cervello. Un percorso così faticoso, da archivista, che, purtroppo, non ti porta in nessun posto. E' inutile ricollocare il passato se non pensi all'oggi. Dopo milioni di anni che lo fai ti rendi conto che provi a dare delle risposte razionali a problemi che razionali non sono, che é come se tu cambiassi la disposizione dei mobili in casa solo perché i mobili ti fanno schifo. Ma un divano che fa schifo davanti alla televisione ti continua a far schifo anche se lo metti sotto la finestra. Il problema non é dove é il divano, ma il divano stesso. Se non lo cambi lo puoi mettere dove vuoi ma ti continuerà a far cagare. Lo stesso con noi stessi. Invece di nasconderci, proviamo a cambarci. Cambiamo look, cambiamo interessi, ci iscriviamo in palestra, ai corsi di inglese, andiamo ad un happy hour, frequentiamo gente nuova, facciamo qualsiasi cosa, pensando bene a cosa fare e come farlo, ma in fin dei conti siamo sempre noi, con le nostre facce sconosciute anche a noi stessi. Questa seconda strada é una sorta di regressione. Far finta di essere diversi, ma con l'ardire di volere essere noi a condurre la danza della diversità, anziché farcela condurre dalla vita. Ma é poi così diverso veramente?

Così, in quanto tempo e per quanto tempo non conta, ho percorso queste due vie che non portano in nessun posto, che non portano verso me stesso, ad una vera consapevolezza di cosa sono e di cosa vorrei essere. Sono strade che non hanno nome, come nel pezzo degli U2, strade che non portano da nessuna parte. Non ha nessuna importanza per quanto tempo percorri queste vie senza nome, un giorno o un secolo sono comunque troppo, l'importante é che a un certo punto ti fermi e ti chiedi dove vai, cosa stai facendo e chi c'é con te, soprattutto se ci sei tu o ancora un altro al tuo posto. Finché percorri le vie senza nome in pratica muori dentro ogni giorno un poco di più e io sto morendo dentro ogni giorno un poco. Sto morendo nascondendomi o schematizzandomi. Sono due facce della stessa medaglia.

L'altra strada, la terza, é quella del prendere atto e del vedersi come si é e non come ci si vorrebbe vedere, E' la strada che rifiuta il nascondino e gli schematismi, la strada dove qualcuno ti prende per mano e ti guida fuori dalle strade senza nome. Dove quel qualcuno che ti prende per mano alla fine non può essere che te stesso.

La prima cosa é chiedere aiuto. Rendersi conto di avere bisogno di aiuto e chiedere aiuto é un passo enorme come l'universo. Almeno per me é così. Nonostante siano anni che chiedo aiuto, subliminalmente o esplicitamente, farlo consapevolmente é tutta un'altra cosa. E' essere umili, non essere deboli. Chiedere aiuto non é un segno di debolezza, ma di forza. Si fa molta fatica a chiedere aiuto. Ci si vergogna, ma non ci si dovrebbe vergognare. Bisogna forzarsi un poco all'inizio, ma se ti trovi nel labirinto delle strade senza nome e non si hanno punti di riferimento, allora l'unica cosa é trovarne. Bisogna sforzarsi di trovare questi punti di riferimento, che, per forza di cose e per la loro essenza, sono fuori di te. Sono fuori dalla mente che vaga nelle strade senza nome. Sono altro, é Dio, sono gli angeli, sono gli amici, sono i professionisti, sono le medicine, sono le persone che ti amano, sono tutto quello che ti può far vedere le cose con occhi diversi, visto che i tuoi occhi si sono abituati alle facili e difficili rutilanti luci delle strade che non vanno da nessuna parte.

Sono come il binario nove e tre quarti di Harry Potter, che é lì, ma gli occhi abituati ed abitudinari dei passeggeri normali dei treni della vita, quei treni che non vanno in nessun posto, non riescono a vedere, né tanto meno trovare. Magari sanno che esiste, forse, ma senza qualcuno che ti aiuti a capire come si fa non possono arrivarci. Oh, non é che una volta che hai trovato il binario nove e tre quarti tu poi sappia ritrovarlo ogni volta. La depressione é come l'ottovolante di Mirabilandia, va e viene. E comanda lei. Io credo che la depressione sia uno stato mentale, una forma, un vestito, un bozzolo. Non é che se la capisci la eviti, riesci a non farti trovare e smetti di morire un poco ogni giorno. Purtroppo non è così e non sarà così. Te la porterai dietro tutta la vita e farà parte del tuo bagaglio di esperienza, di conoscenza e di consapevolezza e non ti lascerà mai. Il che non é sostanzialmente negativo, a patto di essere sempre te stesso.

Cosa c'é di meglio di aver provato la fame per comprendere quanto é bello mangiare, quanto é buono mangiare e quanto é utile dividere il mangiare con qualcun altro. Cosa c'é di meglio di aver provato la sete per essere consapevoli di cosa significa bere, di cosa significa darsi la vita, darsi la possibilità di vivere. Cosa c'é di meglio di essere stati depressi per godersi un raggio di sole, per dare valore a quelle piccole e grandi cose che la vita ci mette a disposizione. Anzi, nel momento in cui non mi dovessi più accorgere di quanto é bella la vita, vorrei urlare benvenuta a te depressione che mi fai star male ma che poi mi fai capire di quanto è meraviglioso ciò che mi circonda. L'importante é avere se stessi, essere se stessi. Essere ciò che si vuole essere, non essere ciò che il mondo ti porta ad essere. Avendo sempre presente che cosa si é e di che cosa si ha bisogno. Cioé di niente, a pensarci bene.

Io sto morendo dentro, ogni giorno un poco. A pensarci bene ne dovrei essere felice, perché la mia vita, quella che rimane, acquista significato, acquista valore. Sto difendendo la mia vita, me stesso, con le unghie e coi denti, anche se sono tanto debole. Ma più sono debole e più probabilmente sono forte, più sono umile e più sono forte. Più per il mondo sono sfigato più io mi sento rinforzato. Più ho i miei cari, più ho i miei amici, più ho persone da amare e meglio sto. Anche se mi costa passare attraverso un pezzo di morte, tutti i giorni.

Io non sono il mondo, io sono Guglielmo Maria.

E voglio bene a me, mi amo, con tutti i miei difetti. E voglio bene, amo, tutte le persone che mi stanno vicino e hanno anche la pazienza ed il coraggio di aiutarmi, ognuno a suo modo. E se io non perdono me stesso, nel senso di perdonare non di perdere, perdono tutti, nel senso di perdere e non di perdonare. Tutti quelli che mi hanno fatto del male ma che grazie a quel male mi hanno fatto capire cosa c'é di veramente importante nella mia vita, mi hanno reso più consapevole. Più umano, meno automatico, meno falso, meno schematizzato. E tutte le volte che la vita mi fa salire sull'ottovolante della depressione e mi fa star male, dopo ogni giro penso che ne uscirò rafforzato e più é dura e più ne uscirò forte.

Aiuto, ho bisogno di aiuto. Ho bisogno di aiuto per poter dare aiuto. Ora più che mai.

Un'abbraccio universale a tutti quelli che sono arrivati fin qui, con me o che ci arriveranno. Prima o poi.

Si può solo migliorare.

martedì 20 aprile 2010

Avviso ai naviganti: questo post potrebbe essere vietato ai minori. Il contenuto, comunque, é rigorosamente vero. GM

***


Poco fa, razzolando nel mio account di Shinystat, il contatore web che mi dà qualche statistica gratuita relativa al blog, ho trovato delle cosette carine che riguardano chi capita qui per caso. Siccome durante la settimana disgraziata che é appena finita non ho avuto una gran vena di "scrittore" e mi si é rinsecchita un pò l'ispirazione, per colpa di alcune sfortunate circostanze che non vogliono saperne di passare, queste cosette bizzarre mi danno il destro per scrivere qualcosa per tener vivo il blog in modo istruttivo e curioso. Istruttivo e curioso per me che tengo il blog, ovviamente. Ma, forse, anche per chi lo legge.


Fra le statistiche disponibili nel contatore web, sappiate o voi che leggete, ci sono anche le chiavi di ricerca che sono state utilizzate, ad esempio, in un motore tipo Google o Yahoo e attraverso le quali qualcuno, che non viene comunque identificato, arriva a queste pagine. La chiave di ricerca più utilizzata - a pari merito con un'altra di cui parlerò un pò più avanti nel post - é semplicemente "Guglielmo Maria". Vuol dire che digitando il mio nome e e facendo la ricerca, fra i risultati compare, evidentemente, anche l'indirizzo del blog. Sarà stato magari per pura curiosità che qualcuno abbia poi cliccato sul link e abbia fatto l'accesso al blog. L'alternativa sarebbe che questi soggetti mi abbiano sognato di notte e che poi mi abbiano cercato su Google di giorno. Ma non ci credo molto, mi sembra molto fantascientifico, anche se un tantino affascinante. Comunque ben due persone sono arrivate qui, digitando "Guglielmo Maria", e tant'é.


Una terza persona ha cercato "il diario di Guglielmo Maria", quindi voleva trovare proprio questo blog, credo. Strano, ma vero. Forse sarà stato il passaparola e la cosa in fondo non mi dispiace.


Una quarta persona ha cercato "una giornata senza pretese recensione" e sicuramente si riferiva alla canzone di Vinicio Capossela da me citata in uno dei post. Immagino la delusione di chi, anziché trovare un parere illuminato di un critico musicale, si é trovato davanti ad uno dei miei sproloqui. Pazienza, nonostante lo choc sarà sopravvissuto, ci saranno delusioni più grandi, nella vita.


La quinta persona cercava "Maria Guglielmo psicologa" e chissà perché, poi ha cliccato sul link del blog. Mi auguro che avesse bisogno di un pò di ironia da sciogliere su una depressione. Chissà se sono riuscito a strapparle almeno un sorriso. Del tutto gratuito, in questo caso. Qui non si va a tariffa, offro io.


Una sesta persona mi ha trovato digitando una frase poetica come "ho sognato dei fiori bellini di un bel rosso". Per mettere due volte la bellezza in una frase sola evidentemente la cercava proprio. Chissà cosa aveva fumato.


Una settima persona ha cercato "vecchia signora dai fianchi un pò molli ama vestirsi di vento e di sole". Se quella di prima si era fatta una canna normale questa si é fatta una ciminiera intera. Non oso infatti pensare ad una perversione sessuale del tipo mi piacciono le anziane flaccide nude nei campi che prendono il sole mentre tira il vento... meglio dare la colpa al fumo, và.


L'ottava, la nona, la decima e l'undicesima persona hanno fatto ricerche nel campo medico sanitario, con qualche lieve accenno, anche qui, di probabile perversione sessuale. Le chiavi di ricerca usate da questi  soggetti sono state "fortissimi pruriti alle caviglie e polpacci", che ci stà, "dermatologa vergogna" che ci stà anche questa (l'ho provata personalmente) e, udite udite, "senza mutande dalla dermatologa". Quest'ultima chiave é stata usata ben due volte, come "Guglielmo Maria". Delle due, l'una. O era la stessa persona che non convinta ci riprovava, oppure più soggetti sono alla ricerca di un incontro senza mutande con una dermatologa. Vista l'ampiezza statistica del campione la cosa non mi lascia proprio indifferente. Per le dermatologhe, ovviamente, ma anche per le malattie veneree.


La dodicesima persona poteva essere un buongustaio, uno chef in cerca di ispirazione o qualcuno che voleva prendere l'amante per la gola. E' arrivata qui digitando "come si fa il salmì con la milza". Non so spiegarmi come un motore di ricerca abbia potuto portarla su questo blog. E'vero che ho nominato in un post la milza, ma il salmì mai. Tra l'altro, solo a pensarci, la milza in salmì mi fa un pò schifo.


La tredicesima é probabilmente una vera assatanata, maschio o femmina che sia.


Qui dovrei fermarmi e mettere un'avvertenza del tipo "attenzione la lettura potrebbe urtare la vostra sensibilità. Se volete proseguite fatelo a vostro rischio e pericolo bla bla bla".


Quando ho letto l'ultima chiave di ricerca non volevo crederci, ma qualcuno ha cliccato il mio blog per trovare "foto porno di donne che si infilano una mano nella vagina"...


Vai tu a fidarti di Google.

lunedì 12 aprile 2010

Domande, risposte. Domande, risposte. Domande? Risposte? Oggi ho l'umore in fibrillazione, va giù, va su, torna giù, resta giù, poi s'innalza, rotea attorno ad un punto, vola, si abbassa, plana, sembra che atterri, atterra, si posa, prende la rincorsa, salta, apre le ali, vola, cade. Ahi! Son caduto dall'alto. Cavolo! Che sberla...

E' incredibile davvero, che sensazione, non c'é un attimo di respiro, si salta come un canguro, sembra un ottovolante. Sembra il Katun a Mirabilandia, si parte, si alza, pian piano raggiunge la cima, si ferma, respira, si lancia, si butta, prende velocità, si arrotola, si rigira, si rigira ancora, sembra che si alzi invece si abbassa, sfiora la terra. E si rialza, si rilancia, si ricicla. Così, in una sequenza senza fine, senza giorno e senza notte, senza pace, come un cavatappi, gira. Frulla, rimbalza, prende, parte, torna, va, rimane. E non sei neanche legato, sei senza cintura di sicurezza. Aiuto!

Il mio umore oggi é una cosa misteriosa, che segue leggi tutte sue, indifferenti al resto del mondo e, quel che é peggio, sconosciute anche a me che mi faccio trascinare come un pupazzo, come una banderuola, come una girella che ci indica da che parte soffia il vento, come una vela che si gonfia, si sgonfia, si rialza, si riabbassa, si sistema e si perde. Il mio umore é come il cuore e non viene comandato dal cervello, anche se dal cervello nasce. E, nel cervello, muore. E rinasce, e rimuore, come un serpente che si morde la coda. A forza di mordersi, morde anche se stesso e si mangia. Tremendo... e se ci penso sto tremando.

Guardami, mi vedi con i piedi al posto della testa, con lo stomaco al posto del cuore.

Il bello é che quando l'umore vuole, si fa notare. Allora ti chiama, si mette davanti, si mette in posa, si impegna. Sorride. Apre le braccia, richiama, gioca.

Il bello é che anche quando non vuole si fa notare lo stesso, ma lo fa con le lacrime. Saranno le lacrime, sarà il sale che mi entra in bocca a risvegliarmi. Sarà l'amaro delle lacrime a darmi uno scossone, a dirmi che non si può andare avanti così. Eppure c'è una sorta di autocompiacimento, una sorta di autocompiangimento, una sorta di autocomponimento. Un pianto. Oppure un canto? Tutto fa rima, tutto torna, tutto rinasce, tutto risorge. Per poi ricadere nella palude, nella nebbia, nella stagnazione dei desideri, nelle veglie notturne, nei pensieri che si attorcigliano, uno sull'altro, uno dentro l'altro, uno sopra l'altro, in una spirale senza fine, come le vertigini che mi prendono, mi scuotono e poi mi lasciano lì, esattamente dov'ero.

Tutta questa fatica per non muoversi di un millesimo di millimetro, di un miliardesimo di infinitesimo di movimento? Tutta questa fatica per partire e ritornare, per muoversi verso qualcosa e poi scoprire di non essersi spostati neanche di un micron. Possibile? Possibile che l'esperienza non insegni, che le forze che ti prendono non riesci ad interpretarle, come i battiti del cuore che il cervello non governa. Che il cervello non spiega, che se prova a tradurle, a renderle leggibili diventano così impossibili da capire? Cosa c'é che non funziona, che non va, che non si rende esplicito o quanto meno un pò leggibile? Ma perché, perché dobbiamo sempre voler dare una spiegazione a tutto? O, quantomeno, ci proviamo e se non ci riusciamo ci sentiamo monchi, incompleti e stanchi, perché é una gran fatica, come si diceva.

Allora mi chiedo quale sarebbe il mio sogno, il mio desiderio, come sarebbe la mia vita, come vorrei che fosse. Un poco più semplice, un poco più netta, certamente più stupida, ma senza grigi, senza variazioni di colore, senza intermedi. Meno sensibile, più sciocca, forse. Meno convulsa, più lineare. Ne ho colpa io se sono fatto così? Forse sì. Forse no. Bella domanda, bel modo di passare il tempo, bel modo di buttare il tempo. Non sarebbe molto più facile dire che me ne frego? Potrei fregarmene veramente? Perché dietro ad ogni domanda non c'é mai una risposta ma delle altre domande? Eh già, perché?

Prendersi il tempo per andare a trovare un amico, parlare con qualcuno che ti ascolti, rilassarsi, stare a cuore aperto. Magari mettersi lì a chiaccherare con un'amica, di cose così, non importanti, ma fondamentali. Passare una giornata a far finta di essere un turista, in giro per la città, godersi l'attimo, parlando inglese, come suggeriva Lucio Battisti, seduti al tavolino di un caffé all'aperto. Perché... pensare sempre al dopo, conviene? E pensare sempre al prima, ha qualche ragion d'essere? Tanto stiamo qui, ora, così. Che casino, che confusione. O mio povero cervello, o mio povero cuore. Un giorno smetterò di pensare, pensare, pensare. Sarà la pace o l'oblio? Chissà, cuore mio.  Sarà la pace o l'oblio? Chissà, cervello mio. Chissà, povero me, chissà. Chi lo sa, da che parte va, il mio umore?

C'é tranquillità da qualche parte dentro me? C'é un rifugio per me che sono stanco, tanto stanco? Vorrei aprire le ali e volar via, volar sul mondo e vedere le cose da lontano, così che tutto sembri piccolo, compreso il mio cuore. Lui é la cosa più piccola dell'universo ma batte e fa tanto rumore come mille atomiche, brilla e fa tanta luce come mille stelle. Se mi allontano, se lo guardo da lontano tutto sembra si rimetta a posto, come i pezzi di un rompicapo, come i troppi pensieri confusi, come i granelli di sabbia che se sei piccolo ti sembrano tanti mondi ma che se sei enorme le stringi nel pugno della mano e li fai volar via, lanciandoli in aria. Ecco.

Un bel respiro e soffiamoli via, come foglie al vento, tutti questi pensieri stronzi. E proviamoci, a godercela, questa vita, che é l'unica che abbiamo. Ci vuole tanto?

Mi sa di no, ma anche di sì... che confusione.

Oggi, é proprio un gran casino, ma domani sarà diverso... domani apro le ali e volo via, me lo prometto.

sabato 10 aprile 2010

Insonnia jazz. Stanotte é la notte dell'insonnia jazz, sono le quattro e sono qui a scrivere chiuso nella mia stanzetta, isolato dal mondo dalle cuffiette che giocano a tennis passandosi delicatamente un cd degli Steps Ahead da un orecchio all'altro. Siccome non dormo mi faccio coccolare un pò dal sax, dal contrabbasso e dalla marimba, con una bella base di pianoforte, tanto per gradire.

Mi sono svegliato già più volte, stanotte. La prima volta perché ho sognato di dare dei calci a qualcuno non meglio identificato, probabilmente un collega di lavoro, visto che ne ho sognati due o tre. Ero così impegnato a calciare che le gambe, vincendo la resistenza naturale del cervello, si sono mosse da sole, i piedi sono partiti verso l'esterno e mi sono ritrovato a sedere, sveglio, dopo aver colpito l'aria che sta a fianco al comodino, quella che puzza sopra le ciabatte. O meglio quella che sta sopra le ciabatte che puzzano. Meno male che non ero girato dall'altra parte, altrimenti avrei colpito la povera Mrs.K. che russacchiava beata nella sua incoscienza post-moderna.

La seconda volta mi sono svegliato per una fitta alla milza. So che é la milza perché me la sono andata a cercare sul dizionario. Il fegato sta a destra, la milza a sinistra. I coglioni stanno in mezzo, proprio come me, fra fegato e milza, fra cuffietta e cuffietta, fra sax e vibrafono. Mi chiedo se la fitta alla milza sarà stata colpa della pizza che ho mangiato ieri sera, la mitica pizza del venerdì sera, quella leggera, con la pancetta, il grana e la cipolla rossa, tutte cosette che, a distanza di ore, mi navigano ancora nello stomaco affrontando una tempesta di succhi gastrici. Che, detto per inciso, stanno nel mezzo anche loro. Nel mezzo dello stomaco, vita acida nel mezzo del cammin di nostra notte.

La terza volta, che poi ho detto basta e mi sono alzato, é stata perchè in sogno avevo trovato un paio di occhialini tondi con due monete da un euro al posto delle lenti. Io ero senza occhiali e ho visto, non so come, quelli per terra, mi sono chinato a prenderli e me li sono messi e mi stavano benissimo. Peccato che non si vedeva un kaiser, ovviamente. Onde per cui (cazzo... che bello l'onde per cui) prima ho iniziato ad annaspare, allungando le braccia e le mani per evitare gli ostacoli e poi, preso dalla paura di andare a sbattere ho aperto gli occhi, ma per davvero e mi sono risvegliato tutto agitato. Chissà, sarebbe stato diverso se me li fossi tolti, quegli occhiali da due euro? Ai posteri l'ardua sentenza.

Fatto sta che, sveglio per la terza volta, ho deciso di impegnarmi in una tecnica alternativa anziché starmene nel letto a girarmi e rigirarmi in un silenzio assordante, lancinato dagli acufeni. Sì, ho anche quelli, ma non ditelo a nessuno, per favore, che poi passo da ipocondriaco. Questa settimana ho avuto le mie solite vertigini, puntuali come un ciclo mestruale, la mia nausea ricorrente ma in forma leggera, per fortuna, che non ho mai vomitato. Ho avuto un mezzo attacchino di paura, mercoledì mattina, quando mi é girata la testa in macchina mentre stavo portando la piccola fragola dalla nonna. E ho avuto una grossa rottura di coglioni, rimanendo sdraiato al buio due mezze giornate con la testa leggera e lo stomaco sottosopra. Praticamente non mi sono fatto mancar niente, in questa bella settimana.

Così, al terzo risveglio, numero perfetto, mi sono alzato, ho preso armi e bagagli, braghe e felpa, ho bevuto quasi un litro d'acqua per colpa della pizza, questo sì, e mi sono diretto in fondo a sinistra, al pc, al blog, alle cuffiette, al mio notturno jazz. Non é male ascoltarsi un'improvvisazione jazz, ti ispira molto un'improvvisazione blog, un'improvvisazione da insonnia, un'improvvisazione improvvisa, piccoli passi di corsa fra le percussioni del vibrafono, grandi stimoli di lievi colori, stelle notturne che improvvisamente esplodono, implodendo. Paradossi della  musica.

Intendiamoci, a quest'ora meglio ascoltar qualcosa che navigare fra siti porno. Quella sarebbe un'altra alternativa, ma la lascio volentieri a chi non riesce a dormire per i sogni o per gli incubi sessuali, a seconda dei gusti. Se dovessi inseguire via web le tracce della gnocca garantisco che non avrei la stessa soddisfazione che ho a stare qui, ascoltando Michael Brecker, Eddie Gomez & Mike Mainieri ad occhi chiusi e perdermi nelle stanze del castello della musica. Se la musica non esistesse, credo che non esisteremmo neppure noi, penso che sia connaturato nel divino della nostra natura umana, l'ascolto della musica. Anche senza la gnocca non esisteremmo, ma per ora, almeno, é una questione di priorità, ovviamente. C'é molta gente che senza il sesso proprio non sa stare, a giudicare dall'offerta che c'é in giro. Naturalmente questo é molto meglio per le professioniste del sesso, però a pensarci bene è molto triste, perché ce ne sono tante sfruttate e non tutte sono libere imprenditrici e poi l'amore non dovrebbe essere pagato.

Se adesso guardo fuori dalla finestra vedo il buio, rotto dalla luce di qualche lampione, qui e là. Sono le cinque, il che vuol dire che sono almeno novanta minuti di veglia notturna, fra musica e pensieri, fra parole e sentimenti, fra colori e stupori. Già, stupori. Non avevo mai notato e di questo mi stupisco di come i camini delle case riflettano la luce dei lampioni. Se li guardi bene, vedi i tetti tutti scuri, regni dei gatti bigi della notte, ma i camini sono più luminosi, come piccole fiammelle. Rimbalzano l'arancio dei lampioni oppure vivono di luce propria? Non é una brutta domanda, per le cinque del mattino, potrei farla anche a me stesso, se non avessi niente di meglio da fare. Per fortuna ora sto seguendo, nel bel mezzo del cervello, una gara indiavolata fra pianoforte e contrabbasso che mi permette per un attimo, lungo come una vita, di dimenticarmi per un pò delle mie sfighe presunte senza aggiungerne altre.

La scorsa estate mi sono letto un libro che consiglio vivacemente a chi é curioso di natura, come me. Si intitola "Viaggio straordinario al centro del cervello" di Jean-Didier Vincent ed é edito da Ponte alle Grazie, nella collana "saggi". E' stato pubblicato in Italia nel 2008, quindi quasi certamente se ne trovano ancora delle copie in giro. Ogni tanto mi torna in mente, perché, fra le mille cose, parla anche del dormire, che come quasi tutto del resto é un'attività gestita dal cervello. Io lo so perché un libro che spiega come dormire mi torna sempre in mente quando non dormo, anche se sembra un poco masochista, quasi come pensare ad un'altra prugna se hai fatto voto di fedeltà coniugale. Mi viene a mente perché ci sono i nove comandamenti, i comandamenti di Espié.

Confesso di non sapere chi sia questo Espié, ci sono imbalzato sopra leggendo il libro di Vincent, ma deve essere un manico del sonno e delle malattie del sonno, se é stato in grado di dettare nove comandamenti sull'argomento. Ad uso e consumo di chi, come me, ogni tanto soffre di insonnia ve li riassumo e commento, poi se volete approfondire vi comprate il libro e leggete le pagine dalla settantasette alla centodieci e Ponte alle Grazie vi ringrazierà. Non so neppure se sono in ordine di importanza, ma probabilmente non é importante, l'importante sarebbe riuscire a dormire, cosa che potrebbe venire naturale proseguendo la lettura di questo post.

Bene, eccoli. La premessa é non prendere sonniferi, neppure ora.

Primo: "Và a letto solo quando hai molto sonno e non per abitudine". Già qui avrei da dire, caro Espiè. E se non hai mai "molto" sonno, ma hai sonno e basta? Perchè quell'aggettivo, per preoccuparci? Comunque mi sembra una regola piuttosto ovvia, se hai molto sonno vai a letto, che cazzo vuoi fare d'altro?

Secondo: "Spegni subito la luce". Ovvietà bis? Hai molto sonno, vai a letto e che fai? Spegni la luce...é solo buon senso. O no?

Terzo: "Non leggere; non guardare la televisione". Se Espiè conoscesse la TV italiana, forse scriverebbe il contrario. E, in ogni caso, a luce spenta é dura leggere, a meno tu sia cieco, ma sarebbe un'altra storia.

Quarto: "Se non ti addormenti dopo venti minuti, alzati e và in una altra stanza finché non ti viene di nuovo sonno". Geniale. Una volta ho puntato la sveglia per capire se dopo venti minuti dormivo già. Dormivo.

Quinto: "Puoi ripetere il comandamento numero quattro tante volte quante ne avrai bisogno". Figo. Una bella scusa per non dormire, ma giustificati. E se chi dorme vicino a te si rompe le balle di tutto quell'alzarsi, coricarsi, alzarsi, coricarsi... Secondo me Espié é single.

Sesto: "Svegliati sempre alla stessa ora". E' un ossimoro. Se non dormi come fai a svegliarti? Misteri misteriosi di Martin Mystere.

Settimo: "Non fare pisolini pomeridiani". Giusto. Chi é causa del suo mal pianga se stesso. Ma difficile, se non hai dormito la notte, molto difficile.

Ottavo: "Non dormire di più per recuperare una mancanza di sonno precedente". Mah, mi sembra una rivangata del sesto, tutto sommato. Caro Espié, qui potevi sforzarti di più. Comunque logico. Stringente.

Nono: "Segui questi comandamenti per più settimane, e ricomincerai a dormire". In gergo tecnico si chiama "pararsi il culo", caro Espié. Così, se non funziona, puoi sempre dare la colpa a qualcun'altro, nell'indeterminatezza delle "più settimane".

Ah... in questo momento ho in cuffia un'acustico di Sergio Caputo, "Un'anima in pena". Che strano il destino, ti ricorda sempre le cose giuste al momento giusto, niente avviene per caso. Infatti sono le sei e dieci, tra poco pubblico il post e andrò a prepararmi un buon caffè, che è iniziata la giornata.

Bonjour a tout le monde, l'insonnia jazz ha colpito ancora.

Colonna sonora consigliata: "Steps Ahead" (1983) e "A tu x tu" di Sergio Caputo (2006). GM

sabato 3 aprile 2010

Mentre scendevano le seconde ombre di una tiepida serata primaverile, insieme a Jonny Whitening, quello del dentifricio, sono partito da Gran Burrone per la zona universitaria di Fast City, la metropoli tentacolare, l'ombelico del mondo, il centro della terra, la vecchia signora dai fianchi un pò molli che ha, per dirla come Francesco Guccini, il seno sul piano padano ed il culo sui colli e, aggiungerei io, un odore di kebab sotto le ascelle, essendosi persi la mortadella ed il salame per strada.

Io non stavo più nella pelle, eravamo diretti al concerto di Sergio Caputo, lui, proprio lui, l'eroe della mia post-adolescenza, l'uomo le cui cassette ascoltavo in macchina salendo e scendendo per l'appennino, l'uomo le cui canzoni avevo imparato a memoria e mai dimenticate, l'uomo che mi aveva regalato notti di libidine fra night e sabati italiani, fra astronavi che arrivavano, Garibaldi innamorati ed Hemingway caffé latini. Erano ventisette anni, giorno più, giorno meno, che il mio cuore musicale innamorato aspettava solo l'occasione di conoscere l'uomo della sua vita, alla faccia di Jonny Smiths.

La serata prometteva bene, anche la notte era bella, con una gran luna. Eh, già, l'hai vista tu la luna a Marechiaro? L'ho vista anch'io, ma sopra Gran Burrone, era una luna sciantosa, tutta pronta, che sembrava un angelo svolazzante fra i tavoli di un caffé concerto e abbiamo pure chiaccherato, come nel pezzo dell'astronave. Io e la luna, intanto che andavo a prender Jonny Whitening, abbiamo anche cantato e diviso un bicchiere di tequila, anche se Sergio non la beve più, facendo un coretto con sette gatti neri.

Arrivando a Fast City, come al solito il primo problema é il parcheggio. Infatti dalle otto di sera Sirio si ammoscia, perché si accende la stella, allora tutti, noi compresi, si entra nella zona a traffico limitato in cerca di un posto dove mollare auto e bagagli. Il traffico è limitato nel vero senso della parola, perché ci sono poche macchine in giro. In effetti sono tutte parcheggiate, anche una sopra l'altra, una sotto l'altra, una a fianco all'altra, come in un'orgia motoristica dove, se non stai attento, un pistone ti si infila nello scappamento perché ha trovato un buco libero. Per evitare il tutto allora si va nel multipiano sotterraneo, quello sotto alla piazzola, circondato da tossici e ubriaconi, che pisciano dentro i tombini o almeno ci provano. Ah, Fast City! Regno del romanticismo bohemienne!

Arrivati a Fast City, dopo aver parcheggiato aprendo un mutuo a favore del padrone del multipiano, come al solito inizi a camminare sotto i portici. I portici sono una applicazione multimediale, infatti hanno molti usi, tipo zona ciclabile sregolata, rimessa di motorini e pista da sci per lo slalom fra gli stronzi. I portici sono una peculiarità di Fast City, che non ne potrebbe fare a meno, visto che ci si fa tutto. Nell'ordine potrebbe capitare di trovarci gente che dorme, gente che fuma, zombie, qualcuno che caga, due che si incazzano, tre ragazze con la cresta stile punk-rock con un lucchetto nel naso, qualcun'altro che gira con l'oca di fuori, un barbone che si mette a posto i cartoni, un finto prete ed una finta suora in libera uscita che vanno ad una serata sadomaso, una fila di negozi pakistani e una trama continua di graffiti colorati sui muri, sulle serrande, per terra che aumentano sempre di più man mano che ti avvicini alla zona universitaria.

La zona universitaria, per uno della mia età, é un colpo al cuore, ma dato bene. E' piena di figa e questo già basterebbe. E' piena di volantini sui muri, piena di scritte, piena di librerie, piena di negozietti, piena di caffè coi tavolini. E' piena dei pensieri di mille anni fa, dei sorrisi di mille anni fa, degli amori di mille anni fa, come una scatola di latta nella quale tieni le vecchie foto che ingialliscono e col tempo diventano più belle e con loro sembrano più belli quelli fotografati sopra. La zona universitaria é un concentrato di pomodoro, una specie di ortolina dei ricordi. Tutte le volte che ci ritorni inizia la litania di "ti ricordi quello, ti ricordi questo, ti ricordi lì che c'era il cinema porno e adesso ci sono dei mini appartamenti" e ti si molla la lacrimuccia, salata come la vita. Meno male che poi, come Dio vuole, arrivi al caffé dove suona Sergio e allora dimentichi tutto e ti tuffi nell'atmosfera modaiola e metropolitana.

Il locale sembra un grande utero, con le sue tube di Falloppio al posto giusto e le ovaie al posto dei cessi. Alla porta c'é un buttafuori abbronzato, molto glamour, che fa tanto grande Mela, e questo già basterebbe. Se lo guardi da fuori il personaggio sembra immobile come una sfinge tanto che pensi faccia parte dell'arredamento del locale ma, come apri la porta, cortesemente ma fermamente ti chiede dove cazzo vai in maniera educata. La parola magica é "abbiamo prenotato" e allora puoi entrare in questa sorta di vagina rossa, molto chic, poco choc e abbastanza figaiola, dove il primo appuntamento ce l'hai con un altro tipo dietro ad un leggio che controlla sul libro dei salmi se il tuo nome compare fra gli eletti, fra quelli che, fra poco, vedranno concepire e nascere la musica dal centro del mondo.

Qualche bigliettone dopo io e Jonny eravamo appollaiati su due sgabelli, al banco del bar, ma con vista palco. La situazione faceva tanto "io e rino" e la notte era ancora giovane, cosa desiderare di più, in quel momento quasi storico? Il primo giro, servito da un barman abbronzato e pure lui molto glamour é stata una Becks ed un rosso di Montepulciano, con annesse patatine, olive, cazzeggio vario e sguardi incuriositi nel locale per vedere se, fra tanta gente, ci fosse qualcuno di conosciuto. La prima oretta passò via così, a piccoli sorsi, a piccoli sguardi, a piccole parole perdute fra la gente che mangiava, beveva e si godeva la serata, in attesa dell'arrivo del nostro eroe, lo chansonnier. Qualche commento sulla passera e la birretta andava giù e si mescolava coi ricordi, tra muri dipinti e bottiglie di vino, aperitivi e cocktail, scaloppine e insalate e gnocche che se la tiravano solo perché avevano la schiena nuda ai primi di aprile.

Alla sua ora, finalmente sentiamo aprirsi la porta e vediamo il buttafuori scappellarsi e fare entrare un gruppetto eterogeneo che fende la folla fiondandosi in direzione del privé. Il più grande, anche se era il più basso, era lui, il mio sogno, vestito come il grande puffo ma senza barba, irradiava un senso di potenza a stento trattenuta. Forse gli scappava perché é sparito di corsa verso il cesso, seguito dal suo entourage. Forse scappava anche a loro. Era tutto molto glamour, verso la profondità della terra, verso le segrete stanze che dovevano raccogliere la concentrazione e riunire le forze nell'atmosfera elettrica che prelude ai grandi eventi, come quello che stavo vivendo. Il passaggio veloce della band era stata una botta di vita, mi sentivo una pianta sferzata dal vento e dalla Becks.

Pian piano i nostri eroi salirono uno a uno e, come Mosé nel mar Rosso, aprirono le acque e salirono sul palco, laggiù, oltre la cervice uterina. Uno al basso, uno alla batteria, uno al clarinetto/sax/flauto traverso e uno alle tastiere. Mancava lui, ma per il momento andava bene lo stesso, l'avvenimento si stava costruendo sotto i miei occhi, davanti al mio naso, poco più in là. Ero felice, moderatamente alcolico e in attesa del lieto evento, persino due babbione si erano sedute accanto a me ma non ci facevo caso, tanto ero preso dalla situazione così metropolitana, equilibrista in bilico sul fine settimana, é quasi l'ora delle streghe e le stelle sono accese.

Poi sentiamo passare una Fender. Una Fender col berretto. Una Fender più grande di lui, che è il più grande di tutti. Una Fender che sale sul palco, lì, che puoi allungare una mano e toccarla. E questo già basterebbe.

E poi parte la musica, partono le parole, parte il ritmo e il blues, parte il treno, parte il tempo, partono i colori, partono i bicchieri, partono gli amori, parte il basso e duetta con la tastiera, sembra una composta di frutta, pezzi di frutta grandi come me, come te, da abbracciare e baciare, da assaggiare lentamente, da gustare, da assaporare, come la vita, come la prugna, come il mondo che gira gira e balla e qualche volta torna da dove era partito ma qualche altra volta arriva dove non sai, ma va sempre bene, in una serata così.

Chiudi gli occhi, apri il tuo cuore.

Vedi la musica, senti i respiri, ti batte il cuore in sincrono. Ne approfitti per fare un pò di musica in quest'attimo infinito, bloccato, da tasto pausa. Tutto é fermo, solo la musica vive. Tutti sembrano statue di sale, tutti immobili, congelati, solo la musica si muove. Ed io con lei.

Scendo dallo sgabello e lascio Jonny Whitening al suo rosso. Tutto é fermo, tranne la musica. La musica é una serie di fili colorati, di bricioline di pane, di indizi da seguire. C'é il filo blu delle tastiere, blu elettrico. C'é il filo del basso, marrone come la terra. C'é quello della batteria, giallo oro, come il sole. C'é quello rosa del sax, tutto attorcigliato. Poi c'é l'arcobaleno della Fender e all'inizio dell'arcobaleno c'é una pentola d'oro e uno gnomo, chiamato Sergio Caputo, col suo berretto color notte e spicchio di luna. Tutti fermi, come una fotografia, con questa magia della musica che ti gira intorno, che ti prende, che ti abbraccia, che ti fa ballare e ti fa dire "la vita é bella, ciao, mercy bocù".

Io salto sui tavoli, calpesto i camerieri dai capelli rasta, mi faccio largo fra la gente, seguo il filo della musica e volo verso il palco, verso l'inizio dell'arcobaleno, verso l'astronave che é arrivata, verso il Garibaldi innamorato dell'Anita, verso l'Hemingway caffé latino se ghigna Belzebù, verso un sabato italiano, verso un italiani mambo, fino alla fine del tempo, quel tempo che si é fermato e ha congelato tutto in baygon street numero uno. Prendo i fili con le mani e volando arrivo sul palco. Sono lì, a fianco di Sergio Caputo, io, proprio io. Proprio io con i miei capelli che non ci sono più, con la mia vita fatta a scale, con i miei vent'anni di una volta, con il trio vocale militare, proprio io.

Stampo un bacio in fronte a Sergio che manco se ne accorge e prendo tutti i fili della musica e ne faccio un gomitolo col quale mi farò un maglione, per le sere dell'autunno della mia vita. E poi mi lascio andare, riapro gli occhi e torno istantaneamente sul mio sgabello, vicino a Jonny Whitening, mi infilo le mani in tasca e sento il mio gomitolo di musica, il mio gomitolo colorato, il mio pezzo di arcobaleno. Mi giro verso il palco, dove Sergio saltella abbracciato alla Fender e lo saluto. Lui risponde al saluto e mi firma due autografi, uno per Guglielmo e uno per Maria. Allora respiro, mi finisco la birretta e allungo le mani sui tasti del pc.

E scrivo. E volo. Via sopra Fast City, seguendo il filo della musica.

Grazie a Sergio Caputo e alle sue canzoni, citate in maniera sparsa in questo arcobaleno di emozioni. GM

lunedì 29 marzo 2010

Carissima, tu lo sai che stamattina ho pianto per te mentre me ne stavo nella mia gabbia, tu lo sai che ho sentito il tuo dolore e l'ho accettato e l'ho preso come fosse mio, anche se mi ha fatto male, molto male. Ma, si sa, se la vita non é vissuta veramente cosa la viviamo a fare? Meglio un giorno da leone che cent'anni da pecora, dicono i proverbi, che spesso hanno ragione.

Oggi ho risentito quella forza bruta che mi prende da dentro e mi spacca a metà, quella forza strana che sento tutte le volte che penso a te, quella forza viva che nasce in virtù di... una profonda amicizia e di una forte empatia? Anche se non ci conosciamo, anche se siamo così diversi, così provenienti da altri pianeti e viviamo anche in mondi così lontani.

"Io", il regolare, l'impiegato, nella media della media, io, un essere da libro delle statistiche, quello del mezzo pollo, io marito, io papà, io con la station wagon, la ventiquattrore, il giornale alla mattina, il caffé al bar, le ore al lavoro, senza gioia, senza infamia e senza lode. Io, la cui unica trasgressione é quella di buttare lo scontrino del bar dentro al cestino del bancomat facendo il dito medio alla telecamera lì sul muro, tanto per dare un tono alla mattina. Io, che mi ritrovo alla mezza età e facendo il bilancio di una vita di positivo ci scopro solo che almeno non mi metto sempre e solo le dita nel naso; io il qualunque.

"Tu", l'angelo perduto, quella che ha immolato la propria gioventù sull'altare di non si sa cosa, che si ritrova alla mezza età e si scopre alla metà del guado della vita improvvisamente e forse improvvisamente si chiede il perché. Tu che sei libera di essere, non hai legami, puoi vivere oggi qui e domani là, senza rispondere a nessuno che a te stessa, che passi i minuti, le ore, le giornate ed i mesi come vuoi, salvo pentirtene e ricominciar daccapo, perché non sai fare altrimenti, Tu che ti fai uccidere a poco a poco, volta per volta ed é sempre più doloroso e quando si alza più forte il richiamo del tuo assassino sempre rispondi.

"Io" che ho fatto una vita inutile, piena di cose che mi chiedo se ho mai voluto far davvero, io che mi sento qui, anch'io a metà del guado e non so se andare avanti, tornare indietro oppure rimanere fermo, in mezzo alla corrente e farmi portar via come se fossi uno stronzo. Io che ho chiesto per quando morirò di essere cremato e ridotto in cenere e disperso in qualche parco, su qualche montagna o in mezzo al mare, io che non penso più al suicidio ma che non voglio essere ricordato nemmeno con una targhetta, meglio l'oblio, sicuramente. Io che ho vissuto i miei cent'anni da pecora, sempre spaventato dai leoni.

"Tu" che hai lasciato la tua valle, la tua casa e te ne sei partita per fare ciò che non so e che non voglio immaginare, tu che hai il cuore dilaniato per quante volte ti sono saltati addosso e te lo hanno mangiato, tu che te lo sei fatto mangiare. Tu che ti nascondi dietro ad un'armatura, tu che cerchi di non brillare come una stella, tu che sei il magnetismo che attrae intorno alla tua orbita, sperduta nel cielo come una stella cometa che va, torna, va e torna. Tu, che hai il corpo di fenice, che ogni giorno muori e bruci ed il mattino dopo rinasci dalle tue ceneri perché sei immortale.

"Io" che mi nascondo dietro a questa vita squallida e monotona, che cerco nel mio Dio rassicurante fatto di pastiglie la tranquillità e la vittoria contro l'ansia, contro l'angoscia, contro quello che mi prende e che mi porta via, chiuso in me stesso, nel buio di una stanza, dove mi vergogno per quello che sono e per quello che non sono, soprattutto. Io che ho una figlia che mi adora ma che non ha ancora  aperto gli occhi su ciò che veramente suo padre é. Io che ho una moglie che mi sopporta e che si é anche stancata delle mie pugnette anche se magari non me lo vuol far capire, ma si legge dai segni.

"Tu" che pensi che gli altri non possano innamorarsi di te ed invece hai tanti che ti amano. Tu che non ti ami, se no avresti smesso di farti del male, tu che sei aggrappata alla vita come un naufrago ad un tronco d'albero, con tutte le sue forze, ma in balia della corrente che lo porta via. Tu che sei un angelo caduto, dalle ali spennacchiate eppure anche così sei di una bellezza spaventosa, che si fa fatica a guardarti, perché si rimane abbagliati e senza parole. Tu che dici di non credere in Dio ma poi diventa lui il bersaglio dei tuoi strali. Tu che dopo una vita impossibile hai avuto lo stesso la bontà e la forza di allungare una mano e far rialzare in piedi e vivere chi era già rassegnato ad una lenta morte, come una candela che si spegne, come me, il coglione.

Tu, quel giorno, hai regalato a me il piacere dell'oggi.

Voglio dirti... vivilo anche tu questo "oggi", vivilo vividamente, a colori, in alta definizione, respirando, volendoti bene, amandoti, anche se non sai quanti giorni ti rimangono, come non lo so io quanti giorni mi rimangono. Dopo cent'anni da pecora ho conosciuto finalmente un leone, anzi una leonessa, che però non sa di esserlo e se lo sa, fa conto di non saperlo. Però questa leonessa mi ha insegnato come si fa e me l'ha insegnato solo con l'esempio.

Smetti di nasconderti, leonessa. Ruggisci, scagliati contro chi ti fa del male, anche contro te stessa se ti serve, ma fallo. Sei bellissima, leonessa, ricordati che non devi vergognarti di niente.

Ti amo, magari a modo mio, ma ti amo. GM

sabato 27 marzo 2010

In questa notte di primavera, la prima notte di primavera, il mio istinto cacciatore mi ha svegliato alle tre e un quarto, forse prima, quando il mondo, visto dal mio letto, era una scatola scura con molte ombre e poche luci, ma buone. C'era la luce di un lampione che timidamente si faceva strada fra le tende della finestra, entrando a trovarmi con la leggerezza della mano della mamma che sfiora il proprio bambino, raggomitolato fra le lenzuola, abbracciato al cuscino, ma col nasino tutto rincagnato.

C'era la luce delle stelle, disperse in un cielo nero e meno visibili del solito perché la luna sta diventando piena e vuole sempre più spazio nel cielo. Quella luna che vuole attirare l'attenzione di tutte noi, piccole falene, che proviamo a raggiungerla imbarcandoci in un viaggio probabilmente senza fine perché, forse, non ci arriveremo mai. La luce della luna, là in alto nel cielo, oscurava da sola un bel pezzo della volta stellata e le stelline attorno a lei scomparivano nel fulgore di quell'abbaglio tremendo, persino ai nostri occhi. Stanotte, guardando la luna, ti potevi ferire gli occhi con la sua carezza, tanto era forte.

C'era la luce dei miei sogni interrotti, che svanivano poco a poco dalla memoria, fino a finire del tutto in una manciata di pensieri piccolini, da tenere sulla punta delle dita, trattenendo il respiro. I miei sogni interrotti erano ormai delle palline colorate che rotolavano via lungo la discesa della notte, appena appena brillanti quando si scontravano con i raggi della luna, unica, bella, viva, lassù nel cielo fino a perdersi chissà dove, in qualche anfratto, in qualche scatolina di metallo, in qualche angolino nel cervello. Come perline a terra che scappano via così i miei sogni svanivano nella nebbia della veglia, fra la terra del mio istinto cacciatore che tutto vuole e niente respinge.

C'erano le fronde degli alberi che ballavano al ritmo sexy della notte, di una notte ventosa, di una notte dai capelli lunghi che, scuotendosi di dosso la polvere del giorno, si muovono e danzano anche loro godendo del vento, del soffio della terra, dell'alito di un Dio bellissimo che ci vuole bene e ci permette di rimanere soli nel letto nel cuore della notte, avvolti dai pensieri e dalle coperte, avvolti dai residui dei sogni ormai evaporati e perduti, dentro ad una carezza. C'erano i tetti delle case, lì ad un passo, che ti pare di toccarli allungando un braccio e sembrano la superficie di una piramide immensa di blocchi di granito, chiari come gli occhi marroni della mia bambina quando mi sorride.

E poi c'ero anch'io con il mio istinto cacciatore, tutti e due svegli alle tre e un quarto, a guardare in alto provando ad attraversare i muri, migrando verso il cielo, il cielo nero come la terra fertile quando il Nilo si ritira e torna nel suo letto. Quel mio istinto cacciatore che mi chiama, mi scuote, mi toglie dal sonno, mi sveste e mi riveste, mi sveste e mi riveste e nella ripetizione mi riempie i polmoni dell'aria della notte e le orecchie della musica delle foglie di quegli alberi che, lentamente, ballano al ritmo sensuale della notte e della luna, riflessa dai tetti, fra le ombre del lampione, al di là della scatola di metallo nella quale si conservano i pezzetti dei sogni, pallidi e frammentati, una volta ancora, una volta di più.

Il mio istinto cacciatore si chiama Wile E. Coyote ed il mio destino si chiama Beep Beep. Il mio istinto cacciatore mi fa alzare dal letto alle tre e un quarto di una notte con la luna e mi porta lungo le strade della vita a cercare il mio destino, che non si fa acchiappare. Il mio istinto cacciatore mi porta lì, nascosto dietro un angolo, elaborando complessi disegni per acciuffare il destino, che passa come un treno illuminato alla velocità del suono, si gira e mi fa uno sberleffo e mi dice che non ce la farò mai, che non lo prenderò mai, ma io so che invece non lo perderò mai, basta aver fiducia. Aver fiducia nei tuoi complessi progetti, dei quali non trovi più il capo e la coda, tanto sono mescolati, ma basta stare un passo indietro e guardarli da lontano allora forse puoi capire tante cose.

Il mio istinto cacciatore ha una colonna sonora bellissima, più bella del vento di questa notte, il vento che ha spazzato le nuvole e ci ha regalato un cielo limpido come l'acqua di un laghetto nel quale si specchiano tutte le montagne del mondo, dalla cima sempre ricoperta di neve. Il mio istinto cacciatore, quando vede le montagne, si mette a scalarle per arrivare in cima e quando é lassù, gli basta respirare per sentirsi vivo. Al mio istinto cacciatore piace tirare fuori il binocolo, quando è in cima ad una montagna ed inizia ad osservare pian piano tutto ciò che lo circonda, alla luce della luna. A me invece piacerebbe sdraiarmi, in cima alla montagna, per guardare il cielo che é così vicino, guardare le stelle, iniziare a contarle anche se é impossibile contarle tutte ed allungare una mano per toccarle, anche se é impossibile toccarle tutte e riempirmi le tasche di neve.

Ma il mio istinto cacciatore ha visto il destino, che corre laggiù sulla pianura e allora, con la forza pazzesca della follia, si butta dalla montagna ruzzolando, correndo, sbatacchiato qua e là, scansando rocce, saltando alberi, spruzzandosi nei torrenti, aggrappandosi alle stelle e sbattendo contro un masso, rimbalzando via ed io con lui, portato via, per sempre, fino alla fine della corsa che però non so quando sarà, ma vale la pena correrla, fino a che non arriva il giorno e ti dici che dopo tutto é stata una bellissima notte, stanotte, e ti é sembrato tutto un sogno...

... che mi ha lasciato le tasche tutte bagnate di neve.

Wile E. Coyote e Road Runner (Beep Beep) sono personaggi dei cartoni animati creati da Chuck Jones nel 1948 per la Warner Bros. GM

giovedì 25 marzo 2010

Letterina a Gesù Bambino...

Caro Gesù Bambino, é arrivata la primavera, si sente nell'aria, si vede nei colori del cielo, nelle gemme sugli alberi, nei sorrisi, nei bambini, negli innamorati, nelle ombre della notte che iniziano lentamente a rallentare, negli occhi dei gatti che se ne stanno accovacciati sullo zerbino, nei panni stesi al sole che asciugano un poco più in fretta, nei pensieri che accompagnano le nostre giornate, nell'odore del caffé al mattino, nei discorsi fatti in piazza dai vecchietti, nelle serrande dei negozi che si alzano un pò prima, nei riflessi dell'acqua e nel cinguettare degli uccellini.

La primavera é l'inizio di un nuovo anno, spuntano le foglie, arrivano i fiori, aumentano gli ormoni e le passioni, si accorciano le gonne e si allungano i capelli, i denti sembrano tante perle risplendenti e le rose sono i fiori più belli del mondo. Le api ronzano, i cani abbaiano alla luna, i coccodrilli continuano nella loro vita a pelo d'acqua, pronti a balzare contro la prima preda che passa, i cinghialetti trotterellano dietro ai cinghialoni e Lucky Strike ha smesso di fumare e tiene in bocca un filo d'erba, masticandola un pò.

L'inizio di un nuovo anno porta sempre con sé i buoni propositi e qualche preghierina, porta la gioia nei destini ed il desiderio di regalare a tutti qualcosa di nuovo, qualcosa di diverso, qualcosa che non si é fatto mai prima e che però lo si é desiderato tanto, come un nuovo amore, anche di quelli diversi, come il guardarsi negli occhi, ma senza parole perché certe volte bastano i pensieri e certe altre volte neanche quelli. L'inizio di un nuovo anno ti lascia davvero senza voce e ti metteresti lì, di fronte a lei, a guardarle le rughette intorno agli occhi e pensare che davvero sei un uomo fortunato.

I buoni propositi si scrivono sempre sul proprio diario e sono i mattoncini sui quali vorresti costruire i tuoi prossimi giorni, le tue prossime ore e se non hai abbastanza ore vanno bene anche i minuti, basta che siano vissuti al massimo possibile, godendosi un minuto dopo l'altro, un secondo dopo l'altro, secondi fatti da milioni di attimi che non finiscono mai, quasi come il sole di mezzanotte visto a Barrow. Prendi una penna, un foglio di carta grande come il cielo e inizi a disegnare i tuoi pensieri, le tue gioie, i tuoi rimpianti e quello che avresti voluto fare, quello che avresti potuto fare e quello che avresti dovuto fare e non hai fatto e mescoli tutto come fosse una macedonia di frutta fresca e colorata.

Il diario é una macchina invisibile, sulla quale posso salire soltanto io, sedermi, girare la chiave, dare due sgasate, accendere lo stereo, mettere su il mio disco preferito, tirare giù i finestrini ed abbassare la capote perché é un diario cabriolet, di quelli con i capelli al vento, anche i pochi che ti rimangono. I capelli piccoli piccoli, grigi e bianchi e quelli neri un pò più lunghi e grossi e tutti che si muovono al vento seguendo la musica della primavera, del primo sole, del sorriso che si nasconde dietro alle tendine e che fa brillare gli occhi, per un tempo immenso.

Caro Gesù Bambino in questo inizio d'anno portami un paio d'ali così che possa alzarmi in volo e non cadere mai, così che possa seguire i venti se mi fa comodo ma cambiare direzione se mi portano dove non voglio, dove non so. Caro Gesù Bambino, in questo inizio d'anno portami un paio d'ali così bianche che se le guardi devi metterti gli occhiali da sole, da tanto splendono, persino di notte. Caro Gesù Bambino, in questo inizio d'anno portami un paio d'ali per raggiungere il mio amore, visto che é un angelo e gli angeli volano lassù in cielo così in alto che non possiamo neanche immaginarlo.

Caro Gesù Bambino, in questo inizio d'anno portami un paio d'ali e fammi conoscere il mio vero Amore, fai che non rimanga solo in questo mondo così alla rovescia, dove é tutto ribaltato e per conoscere davvero gli angeli devi qualche volta scendere le scale della vita ed andare al piano di sotto, dietro all'angolo, in un cortiletto dove risplendono i panni stesi ad asciugare e si sentono le voci dei bambini che giocano e si rincorrono, che giocano e si rincorrono, come la grande ruota della vita, come la terra che diventa verde, poi gialla, poi nera poi si riempie di neve e sotto la neve germogliano gli amori più belli del mondo.

Caro Gesù Bambino, in questo inizio d'anno portami un paio d'ali, lunghe e forti, che io non debba restare solo, solo con me stesso, che non mi sopporto più. Con un paio d'ali come dico io potrei volare, volare per sempre e guardare tutti da lontano, come se fossi una stella sperduta nel cielo ma mescolata a milioni di altre stelle. Con un paio d'ali come dico io potrei raggiungere il pianeta del Piccolo Principe, tanto per conoscerlo e farci quattro chiacchere seduti, "fumando una marlboro al dolce fresco delle siepi". Con un paio d'ali come dico io potrei anche correre lontano e poi tornare indietro, un pò più ricco di colore e di carezze.

Caro Gesù Bambino aiutami ad aiutare, aiutami ad amare, aiutami a non essere egoista, aiutami a fare dei buoni propositi intelligenti, a non perdermi fra le correnti di quel grande mare che é il mondo, che non sai mai dove ti possono portare. Caro Gesù Bambino, lascia che ti tocchi la mano e te la accarezzi dolcemente, sfiorandola appena, con tutta la delicatezza che c'é negli occhi di una madre, nei desideri di una madre, nella voglia di essere madre. Caro Gesù Bambino, ricordati di me e se mi vedi andare fuori strada aiuta la mia mano a tenere il volante e aiuta i miei occhi a vedere sempre cosa c'é davanti, ma per davvero.

Caro Gesù Bambino, anche se siamo solo in primavera, fai risplendere i miei pensieri come se fossero un campo di grano sotto il sole, giallo il sole, giallo il grano, giallo come l'allegria, giallo come la luce di una lampada che oscilla piano piano per un alito di vento. Caro Gesù Bambino aiutami ad aiutarmi, non voglio restar solo tutta la vita, che se no mi sembra così lunga che non passa mai e mi sembra la notte polare e senza la mia stella non so dove andare.

Grazie Gesù Bambino, buonanotte piccolino, ora dormo anch'io e fammi fare dolci sogni, e se mi stringo il mio cuscino e annuso, fammi diventare un cagnolino e non lasciarmi solo.

Buonanotte piccolino.

la citazione é presa da "Se io fossi un angelo" di Lucio Dalla (1985). GM

martedì 23 marzo 2010

Una giornata senza pretese, poesia e canzone di Vinicio Capossela che apre "Liveinvolvo", l'album dal vivo registrato alla fine del secolo scorso, fra vecchie auto, galli e galline, libretti di istruzione e ottoni dalla Macedonia...

Una giornata senza pretese non sarebbe male che arrivasse domani, una giornata tranquilla, senza l'affanno, senza le armature, senza le spade cangianti, senza i telefonini e i bus navetta, senza i vigili urbani e gli editori che arrivano da ogni parte del mondo, una giornata poco funky, molto funcool e senza uffici e chiavette e computer ed e-mail che arrivano e che partono, collegandoci col mondo anche se rimani lì fermo come un budda meditabondo cicciottone dietro alla scrivania dell'ufficio col cellulare all'orecchio, il caricabatterie su per il culo e il walkie-talkie nel taschino della giacca.

Una giornata senza pretese da passare con la calma olimpica dei vecchietti, dei pensionati con la camicia a quadretti che al mattino se ne stanno lì seduti al bar Verde leggendo lo Stadio ed il Resto del Carlino, incollati alle loro seggioline, con le loro belle braghe di velluto e le loro scarpe grosse che ti ricordano il vissuto da contadini, da coltivatori di patate, che sono l'Oro di Gran Burrone. Nonni che stanno lì a parlar del tempo atmosferico e del tempo che passa. C'é sempre troppo caldo, troppo freddo, troppo sole o troppa pioggia e poi c'é il funerale di Orazio, oggi pomeriggio. E per un Orazio che se ne va c'é sempre un Gaspare che si unisce al gruppo, nelle chiacchere in piazza, nelle briscole al bar o all'ombra del campanile.

Una giornata senza pretese da vivere con la forza delle arzdaure, che si svegliano alle cinque e subito preparano il ragù tanto per profumare la casa e mettono via la conserva, lavano i pavimenti, danno l'acqua ai gerani, preparano il caffé per il signor Marito e poi alle otto e mezza tutte puntuali alla messa, con i loro fazzolettoni in testa e le borsette che dimostrano il doppio dei loro anni. Nonne che si lamentano della pensione, di Berlusconi e delle tasse e poi tornano a casa e per passarsi il tempo tirano dodici uova di sfoglia e mettono su la pentola per i passatelli e si leggono la collezione di Famiglia Cristiana.

Una giornata senza pretese come quelle dei bambini dell'asilo, tutti bellini con i loro vestitini colorati, tutti allegri e tutti contenti, anche se non hanno più i cestini come li avevamo noi ma le merendine Kinder che li faranno diventare tutti degli ovetti, senza collo e con la vita bassa, ma col colesterolo alto. Oggi tutti i bimbi sono belli, sembrano usciti da uno spot televisivo, hanno tutti i vestitini firmati e quando piove vanno in giro con gli stivaletti di gomma, come dei piccoli norvegesi ma con la scorta di Winnie the Pooh e Pimpi, il maialino rosa che ha paura anche della sua ombra ma piace tanto ai nostri piccolini.

Una giornata senza pretese come un giretto al mercato del martedì mattina alla ricerca delle occasioni perdute, tre paia di calze di plastica a cinque euro, due stivaletti di pelo di gnocca cinese a quattordici euro, su signora che le faccio bene, che se non li prende poi se ne pente, una batteria di pentole acciaio inox insuperabile a solo venticinque euro, guardi, signora, ha il manico di teflon, é una garanzia. E l'odore tonificante dei polli arrosto alle otto e un quarto del mattino, mentre più avanti c'é quello salvifico del pesce fritto in cartoccio, c'é la bancarella dei formaggi e dei salumi, che sono tanto buoni e più che sono buoni più fanno male, specialmente a quest'ora.

Una giornata senza pretese per mandare a spendere il mondo, per mandare tutti a spazzare il mare, per lasciarsi indietro pensieri, parole, traffico e rumori, nemici e dissapori e amori che forse non funzionano più, e che stancamente arrancano fra i tornanti della vita in una salita che non sembra finir mai.

Una giornata "io e Te", fatta di sguardi, annusandoci pian piano, sfiorandoci la pelle con la punta delle dita, piano piano, ma senza fretta, senza la fretta che riempie i giorni e che ci brucia addosso e non ce ne accorgiamo.

Una giornata "io e Te" o, se ti piace di più, "Tu ed io".

Semplicemente, una giornata senza pretese.